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Cattolicità contestata: in che senso la chiesa è cattolica?

L’aggettivo “cattolico” e il sostantivo “cattolicità” hanno un sapore agrodolce nel linguaggio evangelico ordinario. Sembrano troppo strettamente associati alla realtà del cattolicesimo romano per essere usati in modo scevro da ingombranti sovrastrutture di significato. Per questa instabile relazione con i termini, alcune chiese, recitando il Credo apostolico, preferiscono professare la chiesa come “universale” piuttosto che “cattolica”. La Bibbia non usa mai l’espressione kath’olon (secondo il tutto) in senso teologico. L’unico riferimento esplicito, che viene utilizzato in una forma negativa, è in Atti 4,18. L’uso profano di kath’olon ha una gamma variegata che comprende il significato di “generale”, “totale”, “completo” e “perfetto”. Nel prendere in prestito il termine, la chiesa ha iniziato a comprenderlo come una descrizione dell’universalità della chiesa (fatta di Giudei e di Gentili), della pienezza dell’evangelo (una volta per sempre tramandato ai santi) e dell’estensione globale del popolo di Dio (da Gerusalemme fino alla estremità della terra).

 

Contesti di cattolicità 

Nell’era post-apostolica, l’aggettivo “cattolica” è stata inclusa nel Simbolo degli apostoli come tratto della chiesa di Gesù Cristo. Il Credo definisce la chiesa come “una, santa, apostolica e cattolica”. La cattolicità non fu affermata in modo isolato, ma nel contesto degli altri tre tratti. In questo senso la cattolicità della chiesa è stata identificata e circoscritta dal riferimento alla sua unità (cioè c’è un solo popolo di Dio), santità (cioè che il popolo di Dio è stato messo a parte da Dio e per Dio) e apostolicità (cioè il popolo di Dio segue gli insegnamenti degli apostoli, vale a dire la Bibbia). La cattolicità non è un parametro ecclesiologico autonomo ma è legato organicamente agli altri tre. In questo modo, è protetto dal diventare un onnivoro capace di integrare tutto. Se la cattolicità ha la precedenza sulla apostolicità (cioè sull’insegnamento biblico), diventa universalismo. Se la santità viene lasciata fuori, la cattolicità diventa una scatola vuota di contenuto spirituale. Se la cattolicità perde la sua connessione con l’unità, esplode in una miriade di unità auto-referenziali. Nel V secolo, Vincenzo di Lerino riassunse i contorni della cattolicità con gli avverbi ubiquesemper, ab omnibus: la cattolicità è qualcosa che è stata creduta ovunque (spazio), sempre (tempo) e da tutti (estensione). Nonostante l’utilità della descrizione leriniana, si noti la minimizzazione delle fondamenta bibliche e apostoliche della cattolicità, l’unico criterio esterno e oggettivo per rimanere ancorata alla verità di Dio. Spazio, tempo e estensione sono tutti segni importanti della cattolicità solo nella misura in cui l’evangelo apostolico è la struttura vincolante per l’universalità della chiesa.

 

La romanizzazione della cattolicità

Partendo da questa comprensione fluida, la cattolicità fu profondamente influenzata dall’aggiunta di un quinto segno della chiesa: il suo centramento sulla chiesa di Roma, la sede di Roma, le autorità romane. La cattolicità assorbì l’elemento romano da intrecciarsi tanto con essa e dando vita al cattolicesimo romano. Come Kenneth Collins a Jerry Walls hanno giustamente dimostrato nel loro libro Roman but Not Catholic: What Remains at Stake 500 Years after the Reformation (2016), la cattolicità romana è un’unione consolidata di universalità cattolica e particolarità romana, pluralità cattolica e unità romana, completezza cattolica e carattere distintivo romano, totus cattolico (intero) e locus romano (luogo), pienezza cattolica e parzialità romana, ampiezza cattolica e ristrettezza romana, elasticità cattolica e rigidità romana, universo cattolico e centro romano, organismo cattolico e organizzazione romana, fede cattolica e struttura romana. Nel corso dei secoli, il potere ecclesiastici ha integrato e alla fine ha superato l’autorità biblica. La chiesa romana ha sviluppato le sue rivendicazioni esclusive. L’ascesa del papato è diventato il culmine della romanizzazione del cattolicesimo. I sacramenti sono stati usati per dividere piuttosto che per unire i cristiani. I racconti biblici su Maria sono stati idealizzati. Tutto ciò è il frutto della sintesi cattolica romana. “In breve” – sostengono gli autori – “per quanto ironico possa sembrare, la chiesa di Roma non è sufficientemente cattolica” (p. 83). Il punto è che Roma ha voluto legare le sua romanitas (costituita da una struttura imperiale, un potere politico, un’organizzazione gerarchica, delle tradizioni extra-bibliche) al suo status di unica chiesa di Gesù Cristo dove si può trovare la pienezza della grazia. Ma questo è esattamente il punto della questione. Volendo essere romana, la chiesa ha cessato di essere cattolica. Il marchio romano fu un’aggiunta spuria che alterava la natura della cattolicità della chiesa. 

Tornare alla cattolicità apostolica (cioè biblica)

Alla cattolicità romana è stato dato il primato sulla cattolicità biblica, modificando così i punti di riferimento fondamentali della chiesa romana. La Riforma protestante fu il tentativo di recuperare la cattolicità apostolica dalle incrostazioni romane/imperiali/sacramentali/gerarchiche. Martin Lutero pensava che Roma avesse portato la chiesa in una “cattività babilonese” è c’era l’urgente necessità di salvarla. In un certo senso, la Riforma fu un tentativo di recuperare la cattolicità separandola dall’universo simbolico “romano” e ricollegandola al tratto dell’apostolicità: cioè il principio formale dell’autorità della Scrittura e il principio materiale della giustificazione per fede soltanto. Sicuramente la Riforma si staccò dal cattolicesimo romano, ma lo fece perché voleva ripristinare la cattolicità evangelica. La Riforma non si staccò dalla chiesa; infatti, ha “salvato” la chiesa rompendo la schiavitù del romanismo e ripristinando l’apostolicità della cattolicità. Questo non vuol dire che la Riforma abbia sempre e costantemente apprezzato l’unità della chiesa; significa che la sua principale preoccupazione fu di mettere in discussione la romanizzazione della cattolicità che aveva avuto la precedenza a spese della sua apostolicità. La Riforma rivendicò la cattolicità della fede evangelica mostrando la sua fedeltà alla Scrittura e la sua sostanziale continuità con i Padri della chiesa e riscoprendo il sacerdozio universale dei credenti in contrasto con la divisione romana, sacramentale e gerarchica tra clero e laici. Questo punto è stato elaborato e discusso in libri recenti come quello di Scott R. Swain e Michael Allen, Reformed Catholicity: The Promise of Retrieval for Theology and Biblical Interpretation (2015) e dichiarazioni come “A Reforming Catholic Confession” (2016) fermata da dozzine di studiosi evangelici.

 

Cattolicità missionaria

C’è un’altra prospettiva da cui gli evangelici stanno apprezzando la cattolicità della fede biblica nel mondo contemporaneo. Questa enfasi può essere chiamata la dimensione missionaria della cattolicità. Nel Manifesto di Manila(1989), redatto come risultato del Secondo Congresso di Losanna per l’evangelizzazione del mondo, c’è una chiamata a portare “tutto l’evangelo a tutto il mondo da parte di tutta la chiesa”. Il termine “cattolicità” non c’è, ma la cattolicità della fede evangelica è chiaramente presente. Tutto l’evangelo: non una versione troncata di esso, ma il messaggio biblico completo di Dio creatore, Provveditore e Salvatore di un mondo peccaminoso e perduto. Tutta la chiesa: non una classe di professionisti, ma l’intero popolo di Dio impegnato nella missione fino ai confini della terra. Tutto il mondo: centri, periferie, gruppi e nazioni, il mondo degli affari, dei media, del lavoro e delle idee. Sulle spalle della cattolicità apostolica recuperata dalla Riforma, questo è un modo promettente per rivendicare e vivere la cattolicità della chiesa nel nostro mondo spezzato.

(Sintesi di una relazione alle Giornate teologiche 2019 sul tema “Dove va la fede”)


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