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"Che siano uno". Rileggendo l'enciclica Ut unum sint 25 anni dopo

Era il 1995 quando Giovanni Paolo II pubblicò l’enciclica Ut unum sint, echeggiando la preghiera del Signore Gesù in Giovanni 17,21: “che siano tutti uno”. Partendo dall’impegno “irreversibile” nel cammino ecumenico da parte del Concilio Vaticano II (specialmente nel decreto Unitatis redintegratio, 1964), il papa affermava la via cattolica all’unità: da un lato, l’appello alla “conversione” spirituale (nel senso cattolico romano di cammino interiore di cambiamento) e dall’altro il mantenimento delle strutture dogmatiche ed istituzionali irrevocabili proprie della Chiesa di Roma (tra cui il papato). Indicava nella preghiera (nn. 21-27), nel dialogo (nn. 28-39), nella collaborazione pratica (n. 40) le tre direttrici entro cui condurre il disegno ecumenico. Speciale attenzione veniva dedicata al rapporto con le chiese ortodosse orientali (nn. 50-63) e alle chiese e comunità protestanti (nn. 63-76). Le prime venivano definite “chiese sorelle”, le ultime ricevevano una valutazione variegata: unite nel battesimo e nel credo, ma non ancora nella comprensione di quest’ultimo e nei sacramenti. 

Nella parte conclusiva, Giovanni Paolo II scriveva: “la Chiesa cattolica è consapevole di aver conservato il ministero del Successore dell'apostolo Pietro, il Vescovo di Roma, che Dio ha costituito quale perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità” (n. 88). E poco più avanti dice di essere disponibile a “trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 95). Che cosa significa “esercizio del primato” che non rinunci “all’essenziale”? Che cos’è essenziale nel papato? Che cosa non lo è? Finora la teologia cattolica ha trattato il problema posto da Giovanni Paolo II senza distanziarsi dalla visione tradizionale del papato. Al massimo, c’è stato qualche timido riconoscimento degli eccessi passati nel modo in cui i papi hanno esercitato il loro ministero. Inoltre, sono stati avanzati dei suggerimenti per espandere il potere dei Sinodi dei vescovi e delle Conferenze episcopali e limitare quello della curia romana. In altre parole, la direzione presa è il tentativo di creare un nuovo equilibrio tra il “centro” e le “periferie” della chiesa e creare più controllo ed equilibrio nel sistema complessivo senza alterarlo in modo significativo, senza cambiare la sostanza del problema del papato: e cioè che esso è figlio dell’ideologia imperiale romana ammantata di linguaggio cristiano e non dell’insegnamento biblico.   

Nel suo libro La base dell’unità (1962; ed. it. 1997), il predicatore gallese Martyn Lloyd-Jones ricorda che in Giovanni 17 l’unità è prodotta dallo Spirito Santo e riguarda le persone rigenerate; essa è opera di Dio ed è estesa a coloro che “sono stati dati” a Cristo dal Padre (17,6.9.11). Proprio perché è data da Dio, l’unità è un privilegio esclusivo dei credenti in Gesù Cristo, non dei battezzati dalle chiese. In secondo luogo, la condizione imprescindibile per la conservazione dell’unità è la comune confessione nell’unico e vero Dio rivelato nella Bibbia. L’unità è fondata sulla parola del Signore che è verità (17,17). Di qui l’opposizione al disegno ecumenico di considerare la dottrina un elemento di secondaria importanza ai fini dell’unità. Terzo, l’unità ha una dimensione spirituale primaria anche se necessariamente si manifesta visibilmente (17,20-23). L’unione mistica delle tre persone della Trinità è indicativa della natura dell’unità tra i credenti. Essa non ha bisogno di papati e di istituzioni umane, in quanto ha già l’unità trinitaria a garantirla. Da ultimo, l’unità tra i credenti deve essere conservata fino al raggiungimento della sua pienezza escatologica (17,11). In quest’ottica, essa non deve essere creata artificiosamente ma preservata e promossa fino a quando sarà completamente realizzata dal Signore nel compimento dei tempi. Questa teologia dell’unità è molto diversa da quella sostenuta Tutto ciò è molto diverso da quanto sostenuto da Giovanni Paolo II nel 1995.

In occasione del venticinquesimo anniversario della Ut unum sint, papa Francesco ha scritto una lettera in cui esprime la sua “sana impazienza” nel chiedere un maggiore impegno nell’ecumenismo. Con rispetto parlando, non di maggiore impegno, ma di riforma secondo l’evangelo c’è bisogno! Sino a quando i nodi della struttura dogmatica della Chiesa di Roma non saranno sciolti biblicamente, il papa può essere impaziente finché vuole, ma la struttura di cui è a capo è fuori rispetto al perimetro tracciato dalla Scrittura. “Che siano uno” è la preghiera di Gesù che il Padre ha già esaudito per mezzo dello Spirito Santo nella chiesa dei credenti, senza papati.


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