Dietro ogni medaglia c’è un mondo più o meno connesso. Lezioni per la chiesa evangelica
Il medagliere olimpico italiano a Tokyo non è stato mai così ricco. Abbiamo tutti gioito per le medaglie azzurre nelle discipline più conosciute e anche in quelle che lo sono meno. Bene bene, bravi tutti. Nell’ascoltare – anche se distrattamente – le storie degli atleti che hanno vinto una medaglia, ci sono alcuni tratti comuni che vanno considerati. Dietro ogni medaglia c’è una storia che, per certi versi, è unica ed irripetibile, per altri è simile alle altre, formando quindi un “racconto” comune.
Il succo è che l’atleta non è mai solo, ma parte di una rete di relazioni e dentro un sistema che ha più o meno funzionato. Hanno colpito le storie di sportivi che hanno riconosciuto il sostegno delle loro famiglie: madri, padri, sorelle, fidanzati, ecc. che hanno appoggiato nel tempo la passione sportiva dell’atleta, hanno incoraggiato, sofferto e gioito con loro. Senza il supporto affettivo e materiale delle famiglie (anche se non perfette e non tutte pienamente funzionali), non sarebbero arrivati dove sono arrivati.
Poi è stato giustamente messo in risalto il ruolo dei preparatori atletici, delle squadre di appartenenza e – addirittura – dei “mental coaches”. Intorno ai campioni ha lavorato una rete di competenze che ha contribuito a far crescere l’atleta fino al raggiungimento della medaglia. Dove questa rete ha funzionato male (come – sembra – nel caso della squadra degli schermidori), le medaglie non sono arrivate.
Inoltre, nelle storie delle medaglie, abbiamo appreso dell’esistenza di impianti sportivi (piscine, piste di atletica, velodromi, palestre, ecc.) disseminate nel Paese nei quali si sono svolti gli allenamenti. Ogni impianto ha una struttura fatta di immobili, personale, gare, finanziamenti, rapporti con le varie federazioni. Insomma, il campione non si allenato solo a casa e per conto proprio, ma è entrato in un mondo fatto di connessioni erette a sistema. Dove il sistema c’era e ha funzionato, l’atleta ha trovato le condizioni per migliorarsi e maturare. La medaglia è poi arrivata. Certo ci ha messo la sua prestanza, passione e dedizione, ma la medaglia è frutto di una combinazione di fattori in cui il sistema intorno all’atleta ha avuto un ruolo importante.
Oltre il compiacimento per il medagliere azzurro a Tokyo, cosa possono suggerire queste banali considerazioni alla chiesa evangelica italiana? Offro alcuni spunti per una riflessione estiva in leggiadra libertà.
L’impressione è che noi evangelici italiani ci comportiamo come atleti che vogliono gareggiare e provano a scendere in campo, ma che non vogliono costruire una rete allargata in grado di fare la differenza e di arrivare ad un risultato significativo. O meglio, ciascuno pensa di avere la propria micro-rete credendo che sia sufficiente per essere competitivi, salvo poi realizzare che nessuno vince una medaglia; anzi arriviamo sempre ultimi, se arriviamo.
Ad esempio, la formazione personale e dei conduttori evangelici è fatta da autodidatti, tutta l’attenzione è rivolta alla chiesa locale o al massimo alla propria tribù denominazionale, gli investimenti sono solo nel rispondere ai bisogni immediati (l’affitto del locale, le bollette, le offerte per le emergenze del momento), senza pensare a dinamiche di lungo termine in grado di favorire un salto di qualità per tutti. Quando ciò accade (e accade!), non ci si confronta con altre famiglie evangeliche, non si beneficia di offerte formative accreditate, non ci si riconosce in reti evangeliche nazionali ed internazionali (come l’Alleanza evangelica). Insomma, si rimane ancorati al pur essenziale livello della famiglia nucleare, senza aprirsi alla rete più ampia dell’evangelismo sano che esiste.
È come se Marcell Jacobs avesse scelto di farsi allenare da sua mamma nel giardino di casa e avesse voluto presentarsi alle Olimpiadi così! È assurdo e ci ridiamo su, ma è quello che succede nelle nostre chiese evangeliche. Intendiamoci: il sostegno della mamma è stato ed è essenziale, ma il velocista ha avuto bisogno di mettersi in rete con altre figure, altre istituzioni, altre progettualità per crescere fino a vincere le medaglie d’oro.
Fuor di metafora: le nostre appartenenze locali e denominazionali sono come la nostra famiglia dentro cui siamo nati e che ci vuole bene. Per provare a vincere la medaglia, tuttavia, dobbiamo metterci in rete all’evangelismo nazionale e globale, avere preparatori all’altezza, riconoscere strutture funzionanti, entrare in storie che vanno oltre il nostro isolato, ecc., senza sconfessare assolutamente la chiesa e l’ambiente di provenienza, anzi onorandolo fino in fondo.
Fino a quando, per grazia di Dio, non costruiamo una rete evangelica minimamente connessa e credibile, nessuna medaglia arriverà. Al massimo, le nostre micro-reti ci preparano a gare improvvisate e ininfluenti, ma non alle medaglie olimpiche. Per queste, bisogna entrare in mondi fatti di macro-reti che fanno leva su una comune appartenenza: quella della famiglia evangelica allargata che ha (con tanti limiti e difetti) una sua identità biblica, storica e progettuale. Vogliamo provare a vincere una medaglia per l’evangelo in Italia (alla sola gloria di Dio) o ci accontentiamo di gareggiare ognuno per conto proprio alla fiera delle vanità e delle illusioni?