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Femminismi che stordiscono, femminismi che riorientano

Anche quest’anno riuscire a non parlare di Sanremo sembra impossibile. La kermesse è stata un successo mai visto prima e la sua pervasività su ogni mezzo di comunicazione ne ha fatto un veicolo formidabile di messaggi anche sociali e politici, come del resto è sempre successo. Sarebbero tanti gli spunti su cui scrivere, ma a colpirmi sono stati i messaggi femministi e i discorsi al femminile portati sul palco quest’anno. 

Dal “Pensati libera” della Ferragni al discorso sulla mancata maternità di Chiara Francini, il palco di Sanremo è diventato la vetrina per una femminilità che si vuole liberare dagli stereotipi e dagli aspetti tossici del sistema così detto patriarcale e che vuole trovare la propria forza in sé stessa. Questo femminismo ha i suoi slogan: liberare il corpo, essere forti, indipendenti, determinate ma anche mostrare i lati fragili della femminilità come quello di una maternità che non arriva dopo averla rimandata per molto tempo per riuscire ad eccellere nel proprio mestiere. 

Questi messaggi sono potenti, suadenti, in molti ci si può rispecchiare, alcuni sembrano condivisibili altri meno, ma non sono ignorabili. Come donna evangelica restare lucida davanti a questa valanga di stimoli è difficile. È facile potersi dire altrove rispetto all’ideologia femminista militante, ma è altrettanto difficile avere una propria postura e una formazione adeguata che regga quando i messaggi che quotidianamente assorbiamo sono così penetranti e scalfiscono a poco a poco le nostre convinzioni profonde. 

Ad esempio, il “pensati libera” sembra un messaggio condivisibile, di self empowerment che non va in contrasto con l’essere una donna di Dio, anzi, decontestualizzandolo dalla stola Dior dell’imprenditrice digitale, non c’è messaggio più evangelico di questo; ma quando assorbiamo senza problematizzare, probabilmente arriviamo a concetti che poco hanno a che vedere con l’idea biblica di femminilità. Cosa in realtà stiamo proclamando? Da cosa liberarsi? Chi libera? In vista di cosa essere libere?

Courtney Reissing, nel suo libro The accidental feminist. Restoring our delight in God’s good design  (2015), parla in modo molto schietto del fatto che il femminismo, pur non potendo essere definito in modo univoco, sia in realtà pervasivo nel modo di pensare delle donne contemporanee, anche delle credenti più ferme e di chi in generale si dice lontana dal femminismo. Al di là delle tante declinazioni del femminismo, è comune l’idea generale di “liberazione” delle donne e sempre più diffusa è la tendenza di far coincidere l’uguaglianza con la mancanza di differenze di genere.

A questo proposito bisogna anche sottolineare quanto la chiesa evangelica sia spesso mancante nel proclamare e plasmare con i suoi messaggi una femminilità biblica. Essa si adagia piuttosto a perpetrare un’idea di femminilità cucita su stereotipi altrettanto negativi. Invocare i “bei vecchi tempi” in cui le donne stavano in casa e si accontentavano di crescere i figli, non vuol dire promuovere un’idea biblica di femminilità. Questa mancanza alimenta solo il risentimento di fondo che sta alla base di questi femminismi confusi e disorientanti: la ribellione. 

La ribellione in realtà è il problema con cui ogni essere umano si confronta dal momento della caduta e dell’entrata del peccato nel mondo. Reissing, prima ancora di occuparsi del problema della ribellione contro l’autorità maschile incarnato dal femminismo, si concentra sul fatto che ognuno di noi combatte contro il concetto di sottomissione all’autorità suprema di Dio. Messa questo in prospettiva, la linea del dibattito si ri-orienta ed è possibile così riuscire a parlare della donna, della sua femminilità e dei femminismi.

Effettivamente, sin dalla nascita del movimento femminista, il problema è stato quello di “pensarsi libera”, cioè di sganciare l’identità delle donne dalle relazioni che la definivano, principalmente l’essere madre e moglie. Questo aspetto coglie un punto centrale nella questione femminile. Infatti, benché il femminismo abbia fatto molta strada nello sganciare la donna dal definirsi in quanto in relazione con altri (uomini per lo più), esso non ha portato molto lontano e non ha dato una chiave per cercare la propria identità in un posto sicuro. Anzi, ha lasciato aperte tutte le strade convincendo le donne di poter essere chi si vuole e gettando su di esse il peso di eccellere e performare in ogni ambito riuscendo ad essere uguali e più degli uomini. 

Sganciare l’identità dalle categorie della creazione secondo cui siamo esseri in-relazione, vuol dire non saper più chi si è e dove orientarsi. Per una sano vissuto di femminilità, infatti, bisogna tornare all’ordine creazionale in cui la donna è stata creata ad immagine di Dio per riflettere la sua immagine, con lo scopo di portargli gloria con determinati compiti e ruoli. Essere create come “aiuto” e capaci di “generare vita” non sono note a margine di identità indefinite, ma il progetto per la femminilità pensato dallo stesso Creatore. Queste caratteristiche creazionali sono troppo spesso state svilite anche dalle chiese dove donne senza figli o non sposate non riescono a trovare una propria collocazione. 

Il corpo esposto della Ferragni o il monologo della Francini a Sanremo esprimono bene il sentire di questo femminismo che si sgancia da un’idea preconcetta di femminilità, ma che non si aggancia a nient’altro se non alle proprie capacità, abilità e forze, mentendo, come la Francini sottolinea, sull’idea che alla fine si raggiunga un punto in cui ci si senta davvero libere.

Mentre combattiamo tutte con il nostro peccato cercando continuamente di ribellarci al Creatore, al suo progetto per le nostre vite mentre cerchiamo identità auto-costruite, Reissing ci invita a riconciliare le nostre femminilità, in qualsiasi fase della vita siamo, facendosi curare dal balsamo lenitivo del Vangelo che tratta le ferite, guarisce le identità ferite e dona nuove prospettive. Non abbiamo bisogno di femminismi che portano a nuove schiavitù, ma della scoperta della femminilità che riflette la gloria di Dio perché guarita da Gesù Cristo.


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