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Gens evangelica secondo Michael Reeves (I). Un ritorno ad fontes

“Evangelico” è una di quelle parole di cui molti pensano di sapere il significato. Hanno conosciuto degli “evangelici”. Hanno sentito parlare di “evangelici”. Hanno un parente “evangelico”. Inoltre, spesso “evangelico” è solo un’etichetta teologicamente vuota e riempita di riferimenti politici o culturali. Anche la letteratura sugli “evangelici” è ampissima: da D. Bebbington a D. Tidball, da G. Marsden a S. Fath. Si pensi ai volumi di Dichiarazioni evangeliche I e II. Come orientarsi nel vasto orizzonte che viene associato al termine “evangelico”?

Michael Reeves è uno dei teologi evangelici più apprezzati della nostra generazione. Nel suo ultimo libro Gospel People: a Call for Evangelical Integrity, Wheaton, Crossway 2022, interviene nel dibattito sui contorni dell’evangelicalismo. Per Reeves gli evangelici hanno dimenticato da dove vengono e oggi affrontato una crisi di identità e d’integrità. Il libro è un invito a riappropriarsi di questo nome, anche se in modo corretto. 

Detto semplicemente, gli evangelici sono “gente dell’Evangelo” (gospel people). Per apprezzare la parola “evangelico” è necessario tornare alle fondamenta, all’etimologia della parola “evangelico”. La definizione di “evangelico” rimanda all’essere portatori di una buona notizia, che è l’Evangelo appunto, e mai sganciato dal suo significato teologico. “Evangelico” rimanda allora alla fede biblica, non ad una categoria sociologica o politica. 

È l’evangelo che definisce gli evangelici. Bisogna tornare ad fontes. Si pensi alla lettera ai Romani 1,1-4, in cui Paolo definisce l'evangelo come: 

  • trinitario, cioè è la buona notizia del Padre, rivelata nella Scrittura, che manda suo Figlio a morire sulla croce, in accordo con lo Spirito Santo; un messaggio proclamato attraverso la Scrittura; 

  • cristocentrico, cioè riguarda il Figlio di Dio e che è rivelato per mezzo dello Spirito Santo. 

Oppure si veda 1 Corinzi 1,17-23 in cui Palo afferma che l'evangelo non riguarda la saggezza umana, ma è la rivelazione di Dio; si fonda sull'unico sacrificio di Cristo, compiuto una volta e per sempre; è reso efficace non per abilità o mediazioni umane, ma per la potenza dello Spirito Santo. 

Reeves ricorda che l’evangelicalismo, cioè il movimento composto di credenti in Gesù Cristo che formano chiese, che si spendono per la diffusione e la condivisione della verità di Dio, ha una chiara teologia che ha a che vedere con la rivelazione del Padre, la redenzione del Figlio e la rigenerazione operata dallo Spirito Santo.  Ogni definizione dell’evangelo, e di conseguenza di “evangelico”, deve seguire l’insegnamento apostolico e contenere in essa il DNA dell’evangelo.

Fuori da questi parametri: trinitari, biblici, spirituali, non ci si può definire "evangelici", si è altro; forse un raggruppamento religioso, forse un gruppo di pressione politico, ma non “evangelici” in senso proprio.

Essere evangelici ha a che fare con l’essere una “gens evangelica”, il popolo dell’evangelo. Ne consegue che “l'evangelicalismo sarà una reliquia culturale logora e slavata finché si reggerà su qualsiasi altro fondamento che non sia il Vangelo apostolico” (p.20).

La tendenza sull'uso e l'abuso del termine e la fragilità del significato che viene attribuita alla parola "evangelico" registrata da Reeves è fondata. Si pensi a coloro che, non cogliendo più il cuore dell’evangelicalismo, di definiscono post-evangelici o addirittura ex-vangelici. Di fronte a questi scivolamenti, più che abbandonare il termine "evangelico", dobbiamo riappropriarci di esso nei termini più consoni. L'obiettivo che si propone Reeves è lodevole. Un ritorno all'integrità evangelica è necessario: solo "nel momento in cui le persone dell’Evangelo sono oneste nei confronti del vero evangelo, allora potremmo vedere frutti celesti: un'unità sentita nella fede una volta per tutte consegnata ai santi e un impegno comune per essa" (p.21).

(continua)


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