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Il Covid ha fatto vedere il peggio e il meglio della chiesa

Ora che la pandemia è sulla via del superamento (?) iniziano a sentirsi conversazioni che provano ad abbozzare un bilancio spirituale di quello che è successo. Come esce la chiesa evangelica dalla crisi del Covid? Una di queste conversazioni è avvenuta all’interno del Gruppo di lavoro teologico del Movimento di Losanna che ha tenuto una sessione pubblica il 30 aprile.

Più di 300 partecipanti hanno preso parte alla tavola rotonda digitale presieduta da Michael Oh, direttore del Movimento di Losanna. Interessante lo spaccato evangelico globale rappresentato. La maggior parte dei partecipanti era asiatica, un terzo donne, l’età media 40 anni, pochi europei. Tra le personalità conosciute, sono da segnalare Philip Ryken (presidente del Wheaton College), Valdir Steuernagel (teologo brasiliano), Godfrey Yogarajah (direttore della commissione libertà religiosa dell’Alleanza Evangelica Mondiale). Mi pare di essere stato l’unico italiano presente.

La tavola rotonda è stata imperniata su due relazioni e alcune testimonianze. La prima è stata di Chris Wright, direttore della Langham Partnership e principale estensore dell’Impegno di Città del Capo (2011). Come possiamo ripartire nella pandemia e dalla pandemia? Wright ha messo in evidenza cinque punti.

1. La missione continua. Il mondo è cambiato, noi siamo cambiati, ma la missione di Dio di benedire le nazioni tramite l’evangelo di Gesù Cristo non è cambiata. È l’unica cosa rimasta attuale, stringente, urgente.

2. L’amore in azione. Le sfide davanti a noi sono un’occasione per mostrare la responsabilità cristiana di fronte alle calamità. La chiesa non si ritira e nemmeno si intimidisce, ma dà il meglio di sé se e quando vive l’evangelo in fede e carità.  

3. Il dire profetico la verità. Il Covid non è accaduto senza responsabilità umane. Pur non essendo un giudizio specifico di Dio, è il risultato del peccato di stili e pratiche di vita scriteriati, consumistici, senza freni, sfruttatori. L’idolatria dell’opulenza sta dietro l’innesco della pandemia.  

4. La saggezza pastorale. Il Covid ha determinato fratture profonde nel corpo di Cristo. Sono emersi ancora più forti tribalismi, polarizzazioni e politicizzazioni della crisi che vanno affrontate con saggezza e decisione.

5. La testimonianza fiduciosa. La chiesa nutre speranza, sempre, perché la storia di Dio è incentrata sulla croce e la resurrezione di Cristo in attesa del suo ritorno in gloria e i nuovi cieli e la nuova terra. Non siamo ottimisti, ma speranzosi e il Covid non ha cambiato questa fiducia nel piano di Dio. Che piaccia o meno, l’evangelo chiama a pentirsi dei peccati personali e strutturali.

Wright ha concluso citando il sermone di Alexander Nowell, decano della cattedrale di San Paolo a Londra che, nel 1563, nel bel mezzo di una epidemia che spazzò un quarto della popolazione della città, disse: “se non ora quando?” (When if not now?). Se non ora, quando rilanciare la missione di Dio? Se non ora, quando mettere in azione l’amore cristiano? Se non ora, quando dire profeticamente la verità? Se non ora, quando trattare con saggezza i problemi emersi? Se non ora, quando continuare ad annunciare con fiducia la buona notizia di Gesù Cristo?

Molto interessante è stata la relazione di Mauro Meister, professore di Antico Testamento all’Università MacKenzie di San Paolo (Brasile). Partendo dall’esperienza del suo Paese, Meister ha affermato che il Covid ha messo in mostra il peggio e il meglio della chiesa evangelica.

Il peggio: il Covid ha amplificato le divisioni tra gli evangelici (divisioni politiche, sulla scienza, sulla concezione di salute). Ha messo in evidenza la fragilità della nostra ecclesiologia: sono state prese decisioni pragmatiche sulla natura della chiesa, sugli ordinamenti, sulla liturgia, introducendo soluzioni senza riflessione e senza calcolo delle conseguenze ecclesiologiche della ibridizzazione digitale. Molte chiese, dopo il Covid, scompariranno o si assottiglieranno per essersi avventurate nella “presenza digitale” senza prudenza e senza ancoraggio biblico. Il Covid ha mostrato la fragilità ministeriale delle guide della chiesa che si sono fatti prendere di sorpresa, non formati per la battaglia e alla mercé delle emozioni altalenanti dell’opinione pubblica. Poi abbiamo dato il peggio di noi nel non aver saputo abitare i social media con maturità: nella pandemia, gli evangelici sono diventati smanettoni, polarizzati, arrabbiati, litigiosi, incapaci di ascolto e di moderazione.

Il meglio: Meister ha ricordato tante storie di eccellenza ecclesiale e di resilienza ministeriale. Molte chiese hanno scoperto un senso di comunità nuovo, hanno praticato la generosità (condividendo cibi, sostegni, mettendo in campo progetti diaconali), oltre a farsi promotori di pace sociale e coesione generazionale. Qualche voce profetica si è alzata per presidiare il diritto della chiesa di autodefinire la propria identità e modalità di vita senza delegare alle autorità civili il decidere se il culto fosse “essenziale” o una comodità privata di cui poter fare a meno. La chiesa si è dovuta far carico di ripensare la sua identità in relazione allo Stato interventista, alla scienza saccente e nel contesto della crisi di sistema.   

Alcune testimonianze sono venute da teologi e teologhe evangelici operanti in Medio Oriente, Corea, USA, India e Sud Africa. Quest’ultima ha ricordato che la corsa alla “digitalizzazione” della chiesa ha lasciato degli esclusi sul campo. Ad esempio, la generazione anziana non ha saputo tenere il passo della tecnologia rimanendone fuori; le classi povere non hanno potuto pagare la bolletta digitale della zoomizzazione della chiesa rimanendo isolate.

Nella conclusione, Christ Wright ha ricordato che la chiesa vive nella costante dinamica tra l’essere “raccolta” (gathered) e “dispersa” (scattered). Il Covid è stata una stagione di dispersione che, ora che ci affacciamo alla fase post-pandemia, non deve prendere congedo dalla chiamata a ritrovarsi fisicamente e culturalmente per servire gli scopi del suo Signore nel mondo.


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