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Conservatore, compassionevole e secolarizzato. Il mondo di “Happy Days” 50 anni dopo

“Sunday, Monday, Happy Days”. Così iniziava la sigla musicale della serie televisiva “Happy Days”. Cinquanta anni fa (ma in Italia sarebbe stata trasmessa dal 1978) partiva quella che sarebbe diventato un cult della televisione generalista: le vicende della famiglia Cunningham (incentrata sulla figura di Richard), contornata di personaggi guasconi come Ralph Malph e Potsie e soprattutto dominata da Fonzie. A loro modo, i personaggi sono diventati icone della cultura pop di quegli anni: Richard il ragazzo per bene, studioso, a volte ingenuo ed impacciato; Ralph e Potsie, teneri adolescenti capaci di mettersi nei guai e di uscirne sempre col sorriso; Arnold, il gestore buontempone del fast food che è una delle location principali delle serie; e soprattutto Fonzie, col suo giubbino di pelle, il pollicione alzato, i suoi modi spicci ma generosi, la sua moto “umanizzata”, il bagno trasformato nel suo “ufficio”, i pugni sul jukebox che facevano partire le hits di quegli anni, le ragazze bellissime attorno, …

“Happy Days” apriva una finestra sull’America degli anni Settanta ed è stato uno spottone all’american way of life, al sogno americano diventato realtà per la classe media. C’era la famiglia prospera e laboriosa (Howard, il padre, aveva un ferramenta; Marion, casalinga votata al marito e ai figli) che incarnava i valori della cultura americana di allora: operosità, prospettive di vita aperte e promettenti, villetta ampia a due piani, ognuno con la propria macchina, tempo libero trascorso al fast-food (che in Italia allora era un luogo sconosciuto). Era conservatrice in quanto c’erano codici di morale sessuale tradizionali (i fidanzati uscivano insieme ma entro certi orari e senza sesso) anche se aperti alle trasgressioni di Fonzie, l’unico che viveva sopra le righe rispetto agli standard. Era generosa in quanto prevalevano sempre i buoni sentimenti e ogni puntata si concludeva a lieto fine. Erano veramente giorni felici, almeno all’apparenza, con qualche turbolenza passeggera che alla fine rientrava nell’alveo rassicurante della famiglia e dei legami consolidati. Le uniche inquietudini erano quelle dell’adolescenza, ma non c’erano temi e discussioni politiche, sociali e culturali (il Vietnam, la guerra fredda, la rivoluzione sessuale). Era come se il sogno americano fosse fruibile e alla portata di tutti i volenterosi, ma non soggetto a visioni critiche o alternative. “Happy Days” trasportava in un modo ovattato, protetto, invitante.

La serie era una rappresentazione del “conservatorismo compassionevole” della cultura americana di allora ed è stata promotrice di quella visione. “Happy Days” si svolgeva a Milwaukee, ma della città vera non si vedeva altro che la villetta dei Cunningham con annesso alloggio di Fonzie e il fast-food. L’Italia era lontana ma il melting-pot americano aveva a suo modo inglobato gli emigrati: il cognome Fonzarelli tradiva le origini italiane di Fonzie, così come Arnold era un cuoco-imprenditore italiano che si era re-inventato gestore di fast-food.

A distanza di cinquant’anni ripenso ad “Happy Days” e mi chiedo quale fosse la visione religiosa della serie. Mentre c’erano tutti gli ingredienti del conservatorismo compassionevole, mancava una esplicita matrice religiosa. Howard, il padre, apparteneva alla loggia massonica del “leopardo” e ogni tanto emergeva questa affiliazione con le sue liturgie e cerimonie. La famiglia Cunningham, tuttavia, non aveva impegni religiosi evidenti. C’era la massoneria, ma non c’era la chiesa. Forse, talvolta, c’era una preghiera prima di mangiare (in certe circostanze), ma era un elemento di contorno, del tutto superficiale. Nei discorsi, nelle storie, nei dialoghi delle varie puntate la fede era presunta forse come sfondo culturale remoto e cornice di valori, ma mai vissuta in modo personale. In “Happy Days” c’erano alcune risultanti di una cultura “cristiana” dal vago sapore protestante di maggioranza, ma non la fede come scelta e pratica di vita.

Si può dire che “Happy Days” è il sogno di una vita felice in cui la felicità è la famiglia, il benessere, lo svago: una versione media del sogno americano. E’ una felicità secolarizzata che coglie alcuni frutti di una cultura cristiana (anche se non soggetti a revisione critica ed autocritica) e presentati come aspirazione alla portata di tutti, anche se così non è.

“Sunday, Monday, Happy Days” ha nello sfondo la ricerca della felicità che è iscritta nella dichiarazione d’indipendenza americana del 1776. Rispetto alla risposta del Catechismo minore di Westminster (1640) secondo cui lo scopo della vita è gioire in Dio, “Happy Days” ha perso il riferimento a Dio e lo ha trasferito in un sogno secolarizzato dove Dio è al massimo presunto ma non più creduto.


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