Immortalità dell’anima e resurrezione dei morti. A 70 da un libro di Cullmann
Nel 1956, Oscar Cullmann pubblicava un saggio, poi tradotto in italiano dalla Paideia di Brescia, con un titolo programmatico: “Immortalità dell’anima o resurrezione del corpo?”. Titolo programmatico perché con quella “o” con valore disgiuntivo polarizzava i due elementi: immortalità o resurrezione; o uno o l’altra. Per Cullmann si trattava di due dottrine alternative che non potevano essere conciliate. O si dà l’immortalità dell’anima o la resurrezione dei morti.
La tesi di Cullmann dava eco ad un crescente disagio nella teologia cristiana contemporanea nei confronti di uno dei risultati del confronto antico con la cultura platonica e neo-platonica: l’assimilazione più o meno acritica della dottrina dell’immortalità dell’anima da parte di molti Padri della chiesa che si era poi riversata nell’antropologia cristiana e quindi nell’escatologia.
Grosso modo, l’idea platonica è che l’anima abbia una esistenza eterna ed immortale che, per un certo tempo, abita un corpo da cui si diparte quando il corpo cessa di vivere. Il corpo è quindi un passaggio temporaneo, un involucro (a volte una prigione) dell’anima da cui l’anima si libera alla morte, continuando ad esistere in quanto immortale. L’anima esiste indipendentemente dal corpo, senza il corpo, in assenza del corpo. Può essere incorporea.
Quando l’idea platonica dell’immortalità dell’anima è stata assunta acriticamente, la dottrina della resurrezione perde significato ed importanza. Viene giustapposta ma non ha molto senso parlare di resurrezione dei corpi quando è l’anima ad essere immortale, a prescindere dal corpo.
L’enfasi della Scrittura è sulla resurrezione dei morti e dei corpi. La vita eterna è pensata non in ragione o in forza di un principio (filosofico) d’immortalità dell’anima sganciato o sganciabile dal corpo, ma in forza della resurrezione dei morti. L’immortalità è argomentata nel segno della resurrezione e non in ragione di un principio metafisico intrinseco all’anima.
Che dire della questione? È necessario tornare alla Scrittura secondo un tipico e provvidenziale movimento evangelico di ritorno alle fonti. In questo caso, la tradizione non ci aiuta, semmai ci svia. Quindi è utile tornare alla Bibbia in modo fresco anche se non ingenuo per rimettere in discussione la tradizione.
Il vocabolario biblico riguardante l’antropologia è particolarmente ricco e complesso.
Nell’AT: nephesh = anima, vita, ma anche parti del corpo come gola, stomaco e collo. Ruach (respiro, forza di vita, spirito, forza di volontà), basar (carne, corpo nella sua debolezza), leb (cuore, sentimento, ragione). C’è sovrapposizione di significato. Non sono termini usati in senso compartimentale, ma descrittivo di una realtà complessa e diversificata, sebbene unitaria. Dt 6,4-5: “Ascolta Israele: il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore. Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze”. Dà l’idea di unità e di molteplicità di dimensioni. Si veda il bel libro di Hans Walter Wolff, Antropologia dell’AT, Brescia, Queriniana 1975 (orig.: 1973).
Nel NT il vocabolario, specialmente paolino, è altrettanto ricco e variegato: soma (corpo), sarx (carne), pneuma (spirito), nous (mente), psyche (anima), kardia (cuore). L’idea non è dualista (corpo-anima) né rigidamente monista (questa è la tendenza estrema di Cullmann, quasi a spostare il pendolo sul polo monista), ma comprende una relazione di mutualità, di complementarità, di reciprocità, d’interdipendenza una dimensione corporea ed incorporea. Non dualismo, né monismo, ma olismo duale.
La verifica di quanto detto si ha quando si affronta la questione dello stato intermedio, quello che passa tra la morte del corpo e la resurrezione del corpo. Per i dualisti, l’anima continua a vivere come prima senza soluzione di continuità. Per i monisti, cessando la vita del corpo cessa la vita tout court in attesa della resurrezione, o meglio si assiste ad una sorta di “sonno” (cfr. 1 Ts 4,14: “addormentati”).
Eppure, i dati biblici ci dicono che lo stato intermedio è una transizione tra un’esistenza corporea e un’esistenza corporea risorta. Non è descritta solo in termini di sonno o d’incoscienza onirica. Con sobrietà e discrezione, senza costruire in modo speculativo, ecco i riferimenti:
2 Cor 5,8: “preferiamo partire col corpo e abitare col Signore”.
Fil 1,23. “Ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, che è molto meglio”.
Lc 23,42: “Oggi tu sarai con me in paradiso”.
Mt 17,3: trasfigurazione (Mosè e Elia, prima della resurrezione).
Mc 12,18-27: “Egli non è il Dio dei morti, ma dei viventi”.
Non c’è l’idea di un sonno profondo, ma di un’attesa in vita del compimento dei tempi.
Concludo con la citazione del Catechismo maggiore di Westminster (1648), uno dei documenti confessionali più significativi della fede evangelica. L’enfasi escatologica è sulla resurrezione e su un’esistenza corporale.
D. 86 Cos’è la comunione in gloria con Cristo che i membri della chiesa invisibile godranno immediatamente dopo la morte?
La comunione con Cristo consiste nel fatto che le loro anime saranno rese perfette in santità e ricevute nei cieli dove vedranno il volto di Dio in gloria, aspettando la piena redenzione dei loro corpi, che anche se morti rimangono uniti a Cristo e riposano fino all’ultimo giorno in cui saranno di nuovo uniti alle loro anime. Mentre le anime dei malvagi alla loro morte saranno gettate all’inferno, dove rimarranno nei tormenti e nell’oscurità, mentre i loro corpi saranno trattenuti nelle loro tombe fino alla resurrezione e al giudizio del gran giorno.
In attesa della resurrezione, c’è già il godimento della comunione con Cristo. I credenti sono uniti a Cristo in vita, uniti a Cristo in morte in attesa di ricevere da Cristo un corpo di resurrezione con cui essere uniti a Lui per l’eternità.
Si veda anche la Confessione di fede battista del 1689, art. 31.