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La tragedia dell’Afghanistan. Non bastano le mani giunte sui social

Non siamo mai stati in Afghanistan e non vantiamo competenze su quel Paese. L’unico nostro titolo per parlarne è dato da un impegno della nostra chiesa che, negli ultimi dieci anni e insieme ad altre chiese e opere evangeliche in città, ha animato un’iniziativa di dialogo e sostegno a decine (centinaia?) di profughi afghani. Abbiamo ascoltato dozzine di storie, stretto amicizie con molti, condiviso pezzi di strada e di fatica, visto alcune vite cambiate. Non più tardi di domenica scorsa, abbiamo pregato per l’Afghanistan al culto.

Non vogliamo e non possiamo entrare in intricate questioni storiche e in complesse vicende politiche che vanno oltre ciò di cui possiamo parlare con cognizione di causa. Altri potrebbero esaminare la questione molto meglio di noi. Eppure, le notizie degli ultimi giorni sono arrivate a tutti: il Paese è stato lasciato dalla comunità internazionale e i talebani ne hanno ripreso il controllo dichiarandolo “emirato islamico”. Cosa succederà ora? Che ne sarà delle donne? Saranno chiuse le scuole per loro? Quale sarà il destino di chi non vuole sottomettersi al regime? Cosa sarà dei cristiani? Sono tutte domande tragicamente aperte, le cui risposte sono tanto dure da accettare quanto scontate. Abbiamo provato a farle ai nostri amici afgani e la risposta è stata un pianto. 

Nell’attuale ingorgo del nostro cuore, è evidente che siamo di fronte ad un fallimento dei governi occidentali e, più in generale, della cultura occidentale o, se vogliamo, dell’Occidente nel suo complesso. Non entriamo sulla controversa legittimità dell’ingresso di forze armate in un altro Paese, ma certamente, qualunque sia stata la ragione storica della presenza dei Paesi occidentali in Afghanistan, il modo e i tempi della loro fuoriuscita sono stati vili, miopi, insensati. Non solo dal punto di vista militare, ma anche politico e culturale, la exit-strategy non è stata all’altezza di Paesi che, a parole, si dicono difensori e promotori dei diritti e di ordinamenti improntati alla democrazia. Insieme all’inconsistenza del governo locale e di tante persone che si sono dileguate subito dopo la partenza degli occidentali, si è trattato di un vero disastro.

Assistiamo ora a svariati ed accorati appelli alla preghiera per l’Afghanistan. Aderiamo volentieri a questo effluvio di interesse evangelico per quel Paese. La preghiera non è l’ultima risorsa a disposizione, ma il primo strumento d’ingaggio. Con una precisazione. A nostra volta, preghiamo che, da “social” qual è al momento, l’interesse diventi reale, cioè cristianamente regale. La preghiera ha senso se è accompagnata da responsabilità in base al livello di coinvolgimento possibile. 

Ad esempio, nelle grandi città ci sono comunità afgane. Le chiese evangeliche cercheranno di raggiungerle e di accoglierle o, mettendo il simbolo delle mani giunte sui social, si laveranno le mani quando queste persone busseranno alla nostra porta? Le chiese saranno pronte ad attivare le loro diaconie in progetti responsabili, in rete, imparando da esperienze già funzionanti anche se limitate?

Va bene far circolare appelli per la preghiera ora, ma le chiese evangeliche si metteranno insieme per pregare per l’Afghanistan, ad esempio nel corso dell’IDOP, la Giornata di preghiera novembrina per la chiesa perseguitata o nel corso della Domenica del Rifugiato, organizzata a giugno dall’Alleanza evangelica? Tra qualche mese, ci saranno incontri evangelici organizzati di preghiera nelle diverse città?

Le mani giunte sui social vanno bene, ma queste mani scriveranno e firmeranno appelli al governo italiano affinché organizzi accoglienza a chi dall’Afghanistan vuole andare via perché la sua vita è a rischio? Saranno pronti gli evangelici che oggi compulsano su internet a sostenere le opere che già si occupano di incontrare i profughi afghani nel nome del Signore?

Non abbiamo una risposta alla tragedia di questi giorni se non un grumo di sconforto e dolore, accompagnato dalla preghiera. Tuttavia, vogliamo pregare con le mani giunte non per lavarci la coscienza, ma come esercizio di responsabilità profetica, sacerdotale e regale. Se le mani giunte non diventano operose sono solo un insulso “batti cinque”.


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