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La violenza sulle donne, la responsabilità evangelica

Non passa giorno in cui non si senta parlare di femminicidi e di violenze perpetrate sulle donne. Nonostante alcuni miglioramenti, la strada da fare è ancora molto lunga e nel decennale della Convenzione di Istanbul, è bene che anche la chiesa rifletta su questi temi. Sono infatti passati dieci anni dall’11 maggio 2011, data in cui veniva firmata la Convenzione di Istanbul da 37 paesi facenti parte del Consiglio d’Europa. Questa organizzazione internazionale che si occupa, tra l’altro, di tutela di diritti umani definì nuovi obiettivi e norme nella lotta e nella prevenzione alla violenza sulle donne e per combattere la violenza domestica.

In questo decennale, l’Alleanza Evangelica Europea (AEE) ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che l’omicidio, lo stupro, le molestie sessuali, il matrimonio forzato, l’aborto o la sterilizzazione forzata, il controllo coercitivo, i cosiddetti "delitti d'onore" e i contenuti degradanti dei media, sono innegabilmente sbagliati e non possono essere giustificati. L’Alleanza invita i suoi membri a raddoppiare gli sforzi per combattere questi mali. Nonostante l’AEE condivida il desiderio della Convenzione di vedere un’Europa libera dalla violenza sulle donne e domestica, si rende anche conto delle controversie nate in questi anni a causa dei presupposti lontani da quelli biblici su cui la Convenzione si fonda.

L’Italia, è stata uno dei Paesi che non solo ha sottoscritto il documento, ma che si è mossa in modo proattivo per la sua stesura e che ha anche inserito nel suo ordinamento alcune leggi volte a tutelare e proteggere le donne dalla violenza come quella sul femminicidio, quella sul revenge porn e sull’induzione al matrimonio. Insomma, nonostante la violenza sulle donne sia ancora un problema da risolvere nel nostro Paese, la sensibilità sul tema è aumentata molto e sono tante le iniziative di prevenzione e sensibilizzazione attuate negli anni.

La chiesa evangelica italiana, e non solo, però non dovrebbe adagiarsi sugli sforzi dei governi e delle istituzioni per partecipare alla tutela e prevenzione delle donne. Non essere proattivi in questo senso vuol dire tacitamente avallare l’idea che un nuovo umanesimo inclusivo e sostenibile sia una possibile meta raggiungibile con i soli sforzi umani, senza tener conto del problema del peccato e neanche di quali siano le giuste traiettorie in cui inquadrare il genere, il sesso e le vocazioni ad essere uomini e donne. La chiesa dovrebbe quindi seriamente pensare a definire delle strategie in questo senso poiché, sull’altro versante, ignorare i problemi di genere o ripudiare la nuova sensibilità rispetto alla condizione femminile, significa venire meno alla chiamata regale. Inoltre, essere negligenti in questo campo vuol dire avallare comportamenti che, come dice la Convenzione, minano la salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva delle vittime; tutte aree che la Scrittura ci invita a tutelare e curare secondo una prospettiva biblica matura.  

Nel non scivolare in uno di questi due eccessi, la chiesa dovrebbe pensare prima di tutto alle questioni di fondo: educare ad una mascolinità biblica è sicuramente un compito importante delle famiglie che la chiesa deve sostenere proponendo modelli biblicamente fondati che incoraggiano alla cura ed al rispetto dell’altro sesso e dell’altro da sé in generale. La cultura evangelica deve anche essere il luogo in cui il tema della sessualità può essere affrontato in modo sano incoraggiando a viverla nella sua pienezza ed interezza all’interno del patto matrimoniale, ma distinguendola dalla violenza, dalla mercificazione, dalla spettacolarizzazione e dalla banalizzazione. La chiesa dovrebbe anche essere il luogo in cui donne sottoposte ad ogni specie di abuso possano sentirsi valorizzate e protette nella loro dignità, rifiutando narrative di vittimizzazione e di rivalità dietro le quali trincerarsi.

Bene ha fatto l’Alleanza Evangelica Europea a ricordare il decennale della Convenzione di Istanbul e a stimolare la presa d’atto degli evangelici europei su un tema per troppi decenni occultato o non trattato con la necessaria lucidità cristiana. Mentre la cultura tradizionalista tende a sottostimare il problema e quella progressista lo cavalca per promuovere la sua agenda gender, è cruciale per la qualità della testimonianza evangelica incoraggiare mascolinità e femminilità riformate alla luce della Parola di Dio all’interno di comunità di fede non abusive che illustrino rispetto e cura nelle loro relazioni interne e che, così facendo, contribuiscano al bene della società allargata.


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