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L’aborto non è un “diritto”. La sentenza che riapre il dibattito

“La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”, “l’autorità di regolare l’aborto torna al popolo ed ai rappresentanti eletti”. Sono questi i due passaggi cruciali del pronunciamento della Corte Suprema USA che, con una maggioranza di sei voti favorevoli contro tre contrari, ha revocato la sentenza Roe vs Wade del 1973 che aveva legalizzato l’aborto negli Stati Uniti. Quella sentenza ebbe un ruolo di apripista nell’introduzione dell’aborto nelle legislazioni dei Paesi occidentali. In Italia, la legge 194 del 1978, poi confermata dal referendum del 1981, ha permesso e regolato l’interruzione volontaria di gravidanza. 

La Corte è un organismo giuridico e, come è ragionevole che sia, la sua sentenza stabilisce un punto giuridico, non morale. In altre parole, essa non entra nel dibattito etico che negli USA ha visto duramente contrapposti il fronte pro-vita contro il fronte pro-scelta. Contrariamente a quanto le scomposte reazioni pro-abortiste stanno dicendo, la Corte non criminalizza l’aborto, né lo rende illegale. Revocando la Roe vs Wade, dice che l’aborto non è un “diritto” garantito dalla Costituzione in ragione del rispetto della privacy dell’individuo, ma è una scelta morale e poi politica su cui i singoli Stati devono deliberare.

La tendenza della cultura “progressista” dopo il 1973 è stata d’inserire l’aborto nei “diritti riproduttivi” e di farlo entrare nel paniere indivisibile dei diritti fondamentali della persona che gli Stati devono riconoscere in quanto tali. All’aborto è stato associato l’alone di “diritto” costitutivo della libertà ed è stato caricato di significati simbolici identitari nel segno della libertà.

E’ su questo punto che interviene la Corte USA dicendo che l’aborto non è un diritto costituzionalmente garantito e dunque non appartiene alla sfera dei diritti inviolabili che deve essere rispettato ed attuato sempre e comunque. Esso è semmai una scelta che le comunità dei singoli Stati devono prendere democraticamente in ragione di scelte culturali e politiche pubbliche. La palla passa agli Stati che potranno legiferare sul tema dell’aborto in modo autonomo, anche se molto diverso le une dalle altre. Si prevede che alcuni Stati introdurranno legislazioni restrittive sull’aborto, altri manterranno legislazioni che prevedono l’aborto “on demand” fino al sesto mese di gravidanza (come è stato il caso sino a ieri in tutto il territorio degli USA). In tutti gli Stati si tornerà a parlare di aborto, si spera in modo civile anche se aspro. La palla viene tolta dal campo dell’ideologia progressista dei diritti e viene messa sul terreno di gioco della deliberazione pubblica.    

Si può dire che, con il pronunciamento della Corte, il tema dell’aborto viene rimandato al confronto culturale. Da “totem” ideologizzato da una parte o dall’altra, esso torna sulla piazza pubblica. Ed è un’occasione da salutare con favore.

La generazione della vita è un tema delicato e complesso che non può essere ridotto al diritto della singola donna a fare “ciò che vuole del proprio corpo”.[1] La vita genera un’altra vita, la vita viene generata da un rapporto tra un uomo e una donna, la vita viene generata tramite un atto sessuale, la vita viene generata in un contesto sociale e in situazioni particolari, la vita viene generata dentro una comunità di riferimento. Dall’inizio alla fine, la vita coinvolge una rete di relazioni in cui diversi soggetti sono attivi e sono portatori d’interessi: la madre, il bambino/la bambina, il padre, le famiglie, le chiese, i sistemi socio-sanitari, le comunità locali, lo Stato. Ciò impedisce di considerare l’aborto come “diritto” esclusivo di un individuo sopra tutti e sopra tutto.

In questi decenni, la cultura evangelica è stata convintamente a favore della vita nascente e quindi contraria all’uso ideologico dell’aborto come presunto diritto individuale. Sarà ora all’altezza di affrontare questa nuova fase in cui si aprono spazi per argomentare l’accoglienza della vita come dono di Dio, il sostegno alla maternità, la promozione del matrimonio e della famiglia, la cultura dell’adozione, la responsabilità verso le persone in difficoltà, la partecipazione alla costruzione di pratiche sociali caratterizzate dalla giustizia? In altre parole, sarà in grado di essere una voce saggia e utile per tutti nella deliberazione pubblica?

[1] Per un inquadramento evangelico, rimando a Aa.Vv., “Aborto”, Studi di teologia – Suppl. N. 6 (2008).


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