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Le carceri servono? Forse no

Il carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato sulle prime pagine dei giornali per gli incresciosi episodi di violenza contro i carcerati da parte delle guardie penitenziarie. I video della mattanza sono raccapriccianti. Si sono visti detenuti fatti uscire dalle celle e bastonati durante il tragitto verso i piani inferiori per poi essere di nuovo bastonati nel rientrare dentro. Si è gridato giustamente allo scandalo: in un Paese civile, le carceri devono essere luoghi sicuri in cui lo Stato tratta con dignità i detenuti che scontano la pena comminata, per qualsiasi reato sia applicata e di qualsiasi durata essa sia.

Oltre alle indagini della magistratura e alle ispezioni interne, si sono mossi i vertici dello Stato. Il Presidente Draghi e il Ministro Cartabia hanno visitato il carcere (14/7) mostrando una giusta preoccupazione per i comportamenti degenerati da parte di dipendenti dello Stato nell’esercizio delle loro funzioni. Il Ministro, poi, ha fatto un discorso molto accorato che, nel denunciare l’accaduto, riflette una tipica cultura gestionale di carattere “umanistico”: perché i pestaggi non si verifichino più, secondo Cartabia, bisogna avere “più strutture, più personale, più formazione, migliori norme”. Questa è la ricetta: il problema di Santa Maria Capua Vetere si può risolvere con più carceri, più guardie e leggi più rispondenti al principio fissato nell’art. 27 della Costituzione italiana che dice che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.

Tutto questo ha qualche senso se si lascia intatto l’assetto ideologico secondo il quale lo Stato debba comminare la privazione della libertà di movimento (o detenzione) come pena che rieduca il reo all’interno di strutture di contenzione. C’è un grosso nodo ideologico qui, una specie di totem della cultura moderna. Eccolo in sintesi: lo Stato è il rieducatore del reo; la detenzione è la forma di protezione della società e il tempo di rieducazione del condannato. Tutto questo a costi altissimi e senza una corrispondente attenzione nei confronti delle vittime che, nella maggior parte dei casi, vengono lasciata a loro stesse.

Domande: lo Stato ha davvero il ruolo di redimere i cittadini colpevoli di reati? La detenzione è veramente un tempo di rieducazione? Le carceri sono davvero il luogo della rieducazione? Ad ognuna di queste domande la nostra cultura sembra assuefatta nel rispondere “sì”, anche se l’evidenza sembra andare da tutt’altra parte. Non serve una lunga frequentazione del mondo carcerario per sapere che quei luoghi non rieducano quasi nessuno e che le lunghe detenzioni sono caratterizzate da mancanza di lavoro e quindi da ozio deleterio. Le recidive sono alte, a testimonianza che il sistema non funziona e non solo per mancanza di risorse. Non serve essere esperti del pianeta carceri per sapere che l’altisonante obbiettivo di “rieducazione” è un’illusione da parte dello Stato che investe ingentissime risorse senza ottenere granché.

Il problema non è solo gestionale e nemmeno spiegabile con la retorica delle mele marce che ci sono dappertutto. C’è qualcosa di più profondo e che risiede nel costrutto ideologico che sta dietro e dentro il mondo delle carceri.

In epoca moderna, lo Stato si è attribuito un ruolo “redentivo” per cui ha avocato a sé la funzione di “rieducare” i malfattori. In quest’ottica, la pena ha assunto un carattere “rieducativo”, mentre gli strumenti della pena non sono stati solo il risarcimento della parte lesa o la compensazione dell’ordine sociale, quanto la detenzione del reo a spese dello Stato “rieducatore”. È nato l’istituto della carcerazione, che non è previsto nell’ottica biblica dell’amministrazione della giustizia.

In anni recenti, si parla sempre più di “pene alternative al carcere”. È uno sviluppo interessante. Biblicamente parlando, ha più senso che un condannato lavori per risarcire la vittima del suo reato e la società cui ha inferto un colpo, piuttosto che far perdere tempo e risorse in una detenzione che non risolve alcun problema e costa un occhio della testa.  

Il Ministro Cartabia ha risposto alle violenze di Santa Maria Capua Vetere all’interno del paradigma carcerario invocando più risorse e più strutture, ma senza metterne in discussione l’ideologia (perdente) di fondo. Che questo episodio disastroso per lo Stato italiano, invece, porti ad un sussulto ideale che ridimensioni le prerogative attribuite allo Stato, ricalibri la funzione della pena verso il risarcimento delle vittime e individui modalità di espiazione che mettano al centro il lavoro piuttosto che la detenzione. In fondo, le carceri sono più un problema che una risorsa per la società.


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