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Massimo il Confessore (580-662) e la «divinizzazione» orientale

Continua il modulo di teologia storica “una così grande schiera di testimoni” proposto dalle chiese evangeliche Brecce di Roma. Dopo aver acquisito delle chiavi di lettura necessarie per comprendere le devianze e le riprese bibliche del periodo medievale, e aperto le porte dei dibattiti sulla Cena del Signore e sulla predestinazione, le chiese si sono nuovamente radunate per confrontarsi con il pensiero di Massimo il Confessore (580-662), monaco nato a Costantinopoli, ricordato come uno dei massimi teologi bizantini al fianco di pseudo-Dionigi l’Areopagita e Giovanni Damasceno. L’opera di riferimento seguita è stato il fascicolo “Letture medievali (VI-XI secolo), Studi di teologia N. 67 (2022).

Già dall’appellativo “Confessore” si apre un importante scorcio sulla sua vita. Egli è ricordato per essersi battuto fin da subito contro il monotelismo, cioè l’insegnamento secondo il quale la volontà divina di Gesù Cristo avrebbe assorbito la volontà umana, limitando dunque la sua vera e piena umanità. Il nostro teologo, aderente al credo calcedoniano, confessò fermamente la presenza totale della volontà divina e della volontà umana nella persona di Gesù Cristo, essendo consapevole che elevare una volontà a discapito dell’altra avrebbe messo a rischio la dottrina dell’espiazione dato che la mediazione tra Dio e l’uomo in vista della redenzione sarebbe stata possibile solamente attraverso il sacrificio del Dio-uomo pienamente divino e pienamente umano. La convinzione di affermare la verità biblica e di essere nel giusto, lo portò ad essere processato dal partito monotelita e condannato prima alla mutilazione della lingua e della mano destra e poi all’esilio. Solamente nel Terzo Concilio di Costantinopoli (680), indetto a distanza di circa due decenni dalla morte di Massimo, il ditelismo venne biblicamente affermato, motivandolo anche con l’utilizzo degli scritti dello stesso teologo bizantino.   

Nonostante ciò, l’epicentro della teologia di Massimo non è l’espiazione ma l’incarnazione della Parola. Difatti, egli vede in questa azione il fulcro della storia universale. È la Parola che si incarna (Gv 1, 14), diventando divinamente umana e umanamente divina, permettendo così il ricongiungimento di Dio nei confronti dell’uomo. Ed è la medesima Parola che permette all’uomo di ricongiungersi verso Dio attraverso la sua divinizzazione (2 Pt 1, 4). L’uomo è chiamato a un percorso ascetico progressivo che già dalla creazione lo conduce verso l’unione mistica con Dio, separandosi spiritualmente dal mondo e librandosi verso la partecipazione della natura divina. 

In questo quadro ciò che viene sminuito e posto in secondo piano è il peccato dell’uomo, visto più come un peso-intralcio che frena ma non blocca, anziché una rottura che genera morte (stravolgente e radicale). Esso non viene inquadrato biblicamente come l’elemento dirompente che porta l’uomo alla rottura del patto stabilito da Dio. Quindi l’espiazione di Gesù Cristo diventa meno rilevante rispetto alla sua incarnazione e la divinizzazione surclassa la giustificazione. Il risultato inevitabile è l’esaltazione della dimensione partecipativa al divino già presente nell’uomo che lo porta a distaccarsi dal mondo (visione neoplatonica) e l’annullamento della cornice pattizia e storico redentiva evidenziata biblicamente (creazione-caduta-redenzione-glorificazione). Massimo mette in secondo piano caduta e redenzione, proiettandosi interamente sugli estremi (creazione-glorificazione). Così facendo sminuisce il peso peccato e esalta la volontà dell’uomo, non sottolineando il dono della grazia che permette all’uomo di essere redento e giustificato per vivere pienamente già in comunione con lo Spirito Santo il mondo attraverso la propria vocazione in vista del nuovo mondo.  

Guardando alla vita di Massimo siamo inevitabilmente spinti a domandarci se saremmo disposti ad essere mutilati ed esiliati pur di continuare a proclamare e diffondere la verità biblica. D’altra parte, però, ci domandiamo se, diversamente dal teologo bizantino, siamo consapevoli della gravità del peccato e della centralità dell’espiazione di Cristo che ci ha redento, giustificato e incamminato lungo il sentiero della santificazione che progredisce attraverso le nostre vite e vocazioni. Il rischio è di vivere la vita monacale di Massimo, ambendo esclusivamente a ciò che non è ancora e tralasciando ciò che già siamo e abbiamo già ereditato dall’unione con Cristo.


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