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“Non posso respirare”: 3 risposte alla morte di George Floyd

“Non posso respirare”, “per favore non uccidermi”; sono state queste le ultime parole di George Floyd, un uomo afro-americano di Minneapolis che era stato arrestato, con le manette ai polsi, la faccia a terra e con un poliziotto col ginocchio sul suo collo fino a impedirgli il respiro. Molti si stanno interrogando sul “potere assoluto” della polizia o sugli abusi sulle minoranze nella società americana. Storicamente gli Stati Uniti hanno tristemente già vissuto tanti episodi così: pensiamo alle vicende di Martin Luther King Jr., o Malcolm X, o Rosa Parks. Storicamente non è la prima volta in cui vediamo situazioni che richiedono, o meglio che obbligano, ad una risposta. In tal ottica ci sono 3 risposte al grido di George “non posso respirare”: la rabbia, la giustizia e l’apatia. Quale sarà la nostra?

Reazione di rabbia

La rabbia è la risposta comune quando vediamo un’ingiustizia. Ma non lasciamoci ingannare: questa è la risposta più immediata, più facile, quando non pensiamo di avere altri modi per rispondere a quello che accade. Ma la rabbia è sempre sbagliata? Nella Bibbia, Gesù ha vissuto una rabbia giustificata in Matteo 21, quando i sacerdoti distorcevano i precetti di Dio e approfittavano di quelli che erano più deboli nella società. La nostra rabbia dev’essere basata non solo sulle nostre emozioni, ma motivata da ciò che il Signore stesso odia. In questa situazione possiamo dire con certezza che George Floyd era una creatura ad immagine di Dio; ciò significa che la sua vita aveva un valore intrinseco e che tutti dobbiamo provare rabbia rispetto a quello che è successo a lui. 

La domanda da farsi è se abbiamo avuto questa rabbia giustificata già contro noi stessi e contro i nostri peccati, o contro l’ingiustizia che abbiamo già visto prima di questa situazione. Proviamo rabbia quando vediamo persone deboli respinte, o giovani che si fanno del male a vicenda, o donne sfruttate? Questa battaglia va combattuta con grazia e verità. È la verità che ci richiede di odiare le cose che il Signore odia. Se noi cristiani vogliamo avere una voce credibile e se le nostre chiese vogliono essere una presenza sacerdotale, regale e profetica, dobbiamo chiamare il male col suo nome e provare una santa rabbia contro il peccato.

Sete di giustizia

Quando pensiamo alla giustizia, da dove viene il nostro concetto di giustizia? Essa non può essere basata solo sull’ira del momento o sulla reazione alla ferita osservata o ricevuta. La giustizia divina non è relativa; se fosse così, diventeremmo una società dove ognuno è giudice di sé stesso. In realtà, se andiamo più a fondo, dovremmo giudicare ogni situazione essendo disposti a giudicare allo stesso modo le nostre vite. Siamo stati creati con una sete di giustizia; però se questa sete è agganciata solo alla nostra ira, rimarremo sempre gestiti dalle nostre emozioni che oscillano come una barca sbattuta in una tempesta. 

Come cristiani dobbiamo essere custodi della giustizia: ciò fa parte del nostro ruolo regale. Nelle nostre vite dobbiamo essere i primi a denunciare l’ingiustizia perché la sete di giustizia riflette ciò che crediamo del Signore: Egli è il Dio perfetto nella sua grazia e perfetto nella sua giustizia. “Giustizia per Floyd” è il mantra che sta girando nelle manifestazioni di protesta: è giusto, noi vogliamo giustizia per Floyd. Tuttavia, se proviamo a trovare questa giustizia in noi stessi, semplicemente reagendo al male col male o punendo il colpevole individuale senza capire i motivi profondi delle ingiustizie, non avremo vera giustizia.

Coltre di apatia 

Di tutto quello che è successo, siamo colpevoli anche noi? Abbiamo sentito tante volte dalle minoranze che c’era un problema, ma cosa abbiamo fatto per aiutarle? Abbiamo detto la nostra frase più comune: “pregherò per te” o ci siamo girati dall’altra parte? Abbiamo ascoltato le notizie tante volte, ma non abbiamo veramente preso in carico quello che ci stavano dicendo. Siamo diventati assuefatti all’ingiustizia intorno a noi. Bombardati ogni giorno da una nuova notizia, siamo arrivati al momento in cui non ci impatta più niente. 

Per avere un’ambizione profetica, il ruolo della chiesa deve cominciare dal modo in cui parliamo dell’ingiustizia nel mondo. Dobbiamo essere contro l’ingiustizia nel mondo, ma non possiamo illuderci che, in fondo, il problema, oltre ad essere profondo e strutturale, non sia anche nei nostri cuori. Se siamo apatici all’ingiustizia di coloro che la subiscono, quanto saremo credibili quando parliamo del bisogno di una giustizia eterna che ci riguarda tutti? Nei nostri contesti dobbiamo sempre rispecchiare ciò che crediamo dalla Bibbia. Se l’evangelo è la vera speranza in un mondo ingiusto, dobbiamo manifestare una santa rabbia per quello che il Signore odia, cercare giustizia a tutti i livelli (dall’omicidio di George al peccato del nostro cuore) e rifiutare l’apatia che stordisce le nostre vite.  

(ringrazio il mio amico Larry Davis, pastore evangelico della Journey Church a Lebanon, Tennessee, USA, per aver contribuito alla stesura di questo articolo). 


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