Pene estinte e omicidi in libertà. Quanto giusta è la giustizia?
La giustizia umana lascia sempre l’amaro in bocca. Non solo a chi ne subisce le condanne, ma anche a chi, pur aspettando giustizia, rimane invischiato nella sua macchina o ne osserva il funzionamento farraginoso o iniquo. Quello che è esperienza tristemente comune esplode con virulenza quando si verificano fatti come la liberazione di un omicida che, estinta la pena comminata, viene scarcerato e torna libero cittadino. Il caso di Giovanni Brusca è solo l’ultimo di una lunga serie. È giusto che un pluriomicida e stragista ritorni libero? Certo, dal punto di vista formale sì: ha scontato la pena che la giustizia italiana gli ha comminato. Si avverte tuttavia un disagio residuo. La pena era veramente adeguata al reato commesso? Le vittime sono state risarcite dal reo? L’ordine sociale – che il reato ha infranto – è stato ristabilito?
Questo disagio va decodificato. Il desiderio di “vendetta” non è un motivo sufficiente per giustificare la reazione di “pancia”. La giustizia non è vendetta, men che meno vendetta sommaria. E’ necessario andare più in profondità e toccare alcuni punti nevralgici. Nella nostra cultura imbevuta di illuminismo (ci ricordiamo di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria?) e impregnata di cattolicesimo (sostanzialmente semi-pelagiana), la giustizia è diventata una forma di “rieducazione” – in termini teologici diremmo di “redenzione” – del reo. L’idea è che chi ha commesso il reato viene detenuto (privato della libertà) e nel frattempo lo Stato si assume la responsabilità di rieducarlo. L’art. 27 della nostra Costituzione lo dice espressamente: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. In questo articolo confluiscono le due matrici della cultura maggioritaria: l’illuminismo dello Stato educatore e il cattolicesimo della bontà residua del reo.
Nel sistema italiano, la giustizia non è finalizzata al risarcimento della vittima da parte del condannato, ma usa la leva della detenzione (peraltro a spese dello Stato) come tempo di presunta rieducazione (peraltro con risultati scarsissimi). Il risarcimento passa in secondo piano, le vittime passano in second’ordine: chi emerge è lo Stato che si fa “rieducatore” del deviante e il reo che diventa lui stesso vittima di qualcosa (la società, la scuola, la cultura) da cui essere redento dallo Stato salvatore.
La giustizia biblica si muove su altri binari[1]. Al magistrato è affidato il compito di infliggere “una giusta punizione” (Romani 13,4) e di “punire i malfattori” (1 Pietro 2,14). Nell’ottica biblica, la punizione non consiste nella detenzione, ma nel risarcimento della vittima da parte del condannato. Allo Stato non è affidato alcun ruolo rieducativo, men che meno redentivo. Il fuoco rimane la restituzione alla vittima di quello che le è stato sottratto e l’obbligo del reo di risarcire il valore economico corrispettivo di quello che ha tolto.
Per la prospettiva biblica, esiste un codice legale che stabilisce i reati e le pene (è esclusa la giustizia fuori da una piattaforma normativa), esiste la figura del magistrato che è un ministro di Dio per comminarle (è esclusa la vendetta personale), esiste un processo in cui il caso viene affrontato coinvolgendo i testimoni a garanzia dell’equità del dibattimento e della certezza delle prove, esiste l’esecuzione immediata della pena per il risarcimento/compensazione del danno. Non esiste l’istituto della carcerazione e nemmeno la funzione correttiva della pena.
Quando si verificano casi come il fine pena di un pluriomicida che torna libero, c’è un sussulto che non va rimosso e nemmeno cavalcato con la “pancia”. Al contrario, va interrogato e sottoposto a decodifica. Cosa ci fa sussultare? Perché? Cosa è in gioco? Quale paradigma di giustizia è stato applicato e in che senso si discosta da quello biblico?
Nella nostra cultura giudiziaria (oltre alle complesse questioni organizzative e al precario funzionamento del sistema), c’è un intreccio consolidato di pelagianesimo (il reo in fondo è “buono”) e di messianismo secolarizzato (lo Stato è il padre severo e compassionevole) che hanno “idolatrato” il ruolo redentivo dello Stato e “scusato” la vita del reo, molto spesso a scapito delle vittime e dell’ordine sociale. Questo dovrebbe essere il sussulto da provare non solo quando un omicida torna in libertà, ma tutte le volte in cui la giustizia si attribuisce compiti non suoi ed evade responsabilità che invece sono sue.
[1] Si veda la voce “Penologia” in Dizionario di teologia evangelica, a cura di P. Bolognesi, L. De Chirico, A. Ferrari, Marchirolo (VA), EUN 2007, pp. 549-550.