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Pensare alla morte nel centro di Roma

A Roma esiste un’antica residenza medievale situata a poche centinaia di metri da Piazza Venezia conosciuta come “Casa dei Crescenzi”. Essa si contraddistingue rispetto alle strutture circostanti per il suo stile peculiare e divergente. Il proprietario, un certo Nicolao de Crescenzi, la costruì tra il 1040 e il 1065, integrandovi degli elementi romani che, amalgamandosi con l’architettura del tempo, hanno creato un edificio che attira gli sguardi dei passanti più curiosi. Un tempo utilizzata come abitazione privata e posto di blocco per il pagamento dei dazi (dato il confine naturale del vicino Tevere), dal 1939 ospita il “Centro di Studi per la Storia dell’Architettura”.

Oltre all’originalità, c’è un altro elemento poco noto che la caratterizza. Si tratta del contenuto dell’iscrizione che il proprietario fece apporre sopra l’ingresso dell’abitazione:  

Nicolao, di cui è questa casa, non fu ignaro che la gloria del mondo non ha nessuna importanza di per sé; non fu la vanagloria a spingerlo a costruire questa casa, ma il desiderio di rinnovare l'antico decoro di Roma. Nelle belle case siate memori dei sepolcri e state certi, per Dio, che lì non resterete a lungo. La morte viene sulle ali; per nessuno la vita è eterna, la nostra permanenza è breve e il suo stesso corso è lieve. Se pure tu fuggissi il vento, se pure tu chiudessi cento porte, se tu comandassi mille scorte, non ti coricheresti senza la morte. Se pure ti chiudessi in un castello alto fino alle stelle, proprio là essa suole strappare anche più velocemente chiunque lei voglia. Sorge verso le stelle la casa sublime, la cui mole il grande Nicolao, primo fra i primi, eresse dalle fondamenta, per rinnovare il decoro dei padri. Del padre il nome è Crescenzo, della madre Teodora. Questa mole illustre eretta per il caro figlio, il padre che l'innalzò a Davide l'attribuì. 

Pur avendo deciso di costruire la Casa per riportare in auge la magnificenza dell’antica Roma, Nicolao era ben conscio della provvisorietà della vita e che non avrebbe eternamente goduto del suo possedimento. Dato il luogo dell’iscrizione, possiamo supporre che volesse condividere il suo pensiero con i suoi ospiti o con i viaggiatori che seppur impazienti di entrare in città, dovevano per forza fermarsi per pagare il pedaggio. È probabile che un tema così sensibile avviasse delle conversazioni di una certa profondità e riflessione. Allora perché non immedesimarci in uno di questi dialoghi e presentare il punto di vista della Parola di Dio? Il discorso inizierebbe più o meno così...

1. Anche Mosè nella sua preghiera rivolta a Dio riflette sulla transitorietà della vita: “I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni; e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliam via” (Salmo 90,10). Egli è consapevole che il limite temporale e l’orgoglio sono una morsa letale per ogni singolo uomo, nessuno escluso. Però, anziché focalizzarsi unicamente sulla destinazione finale, Mosè mette in prospettiva la sua vita terrena e quella del popolo d’Israele, riconoscendo che essaè nelle mani di colui che “da eternità in eternità” è Dio (v. 2), l’unico in grado di insegnare “a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio” (v. 11).

2. Il truismo di Nicolao sull’inevitabilità della morte e l’impossibilità di sfuggire da essa, ci ricorda uno dei salmi più celebri di Davide. Nel salmo 139, il re d’Israele, oltre a meditare sull’onniscienza di Dio, ragiona sulla sua ubiquità. Si rende conto che non può fuggire dalla presenza del creatore del mondo perché egli è Spirito (v. 7; cfr. Giovanni 4,24) e nemmeno l’ingresso nel soggiorno dei morti gli è impedito (v. 8). Sarà sufficiente non parlare per non rivelare i propri pensieri e segreti? Nemmeno per sogno, “Poiché la parola non è ancora sulla mia lingua, che tu Signore, già la conosci appieno”. (v. 4) Ma allora cosa fare? Basterà avere “ali dell’alba” alla stregua di Icaro o “abitare all’estremità del mare” magari costruendo una casa sull’isola che non c’è? (v. 9) Manco questi ingegnosi marchingegni produrranno l’effetto desiderato. Davide non può fare altro che riconoscerlo: “anche là mi condurrà la tua mano e mi afferrerà la tua destra.” (v.10) Ma a differenza di Nicolao, che nel riconoscere la fattualità della morte, pare essere oppresso da un tale pensiero, Davide trova riparo negli attributi propri di Dio: la sua onnipresenza e onniscienza non sono vissute con angoscia ma sono motivo di lode al Signore dell’universo: “Oh, quanto mi sono preziosi i tuoi pensieri, o Dio! Quant’è grande il loro insieme!” (v. 17) 

3. Secondo Nicolao “per nessuno la vita è eterna”. Bisogna ammetterlo: qua ha palesemente mancato il segno. La stessa morte di cui era lucidamente conscio è stata definitivamente sconfitta dalla storica e scritturistica resurrezione di Gesù Cristo (1 Corinzi 15,1-11) e non è più oggetto di timore per colui che ripone la sua completa fiducia nel Salvatore del mondo. Dio, tramite il sacrificio propiziatorio del suo unigenito Figlio, ha spezzato il giogo oppressivo del peccato e dona gratuitamente la vita eterna a coloro che, per mezzo della sua grazia, riconoscono di essere peccatori bisognosi della salvezza unicamente data per mezzo di Gesù Cristo. 

In un momento di pandemia mondiale, nel quale la parola “morte” occupa in maniera ancora più pervasiva sia le testate dei giornali che i pensieri giornalieri degli individui, è necessario ricordare che abbiamo bisogno della saggezza chiesta da Mosè al Signore per condurre al meglio il tempo che ci è dato; riconoscere, come fece Davide, che Dio è sempre presente nelle nostre vite e mai ci abbandonerà, e comunicare con fermezza che “il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore” (Romani 6,23). 

(in collaborazione con Ariana Damaske)

Casa dei Crescenzi


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