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Protocollo London Bridge, ce l’abbiamo pronto?

Sta facendo discutere il “protocollo London Bridge”, le disposizioni che saranno prese quando morirà la regina Elisabetta d’Inghilterra. Dal discorso del principe Carlo, all’uso dei social, alla gestione delle condoglianze che arriveranno, all’organizzazione dei funerali di Stato, ecc. La morte della regina sarà un evento che catalizzerà l’attenzione del mondo e che, saggiamente, va preparata da chi dovrà gestirne gli aspetti pubblici, organizzativi e comunicativi. 

Non desta scalpore, dunque, che si parli della morte di qualcuno prima che essa avvenga. A ben vedere, però, ciascuno di noi dovrebbe avere una sorta di “protocollo London Bridge” per sé da condividere con i cari intorno, prima che la morte arrivi. La nostra morte non sarà certamente un evento paragonabile a quello della regina Elisabetta quanto ad impatto mediatico e a complessità organizzativa; il punto è che questo passaggio non lasci noi stessi e chi dovrà fare i conti con esso del tutto “impreparati”, incapaci di averne immaginato l’arrivo e averne predisposto misure adeguate.

Come ci avviciniamo al nostro fine vita? Abbiamo lasciato le disposizioni anticipate di trattamento? Abbiamo preso una decisione sull’eventuale cremazione? Abbiamo parlato della nostra morte con persone care? Abbiamo previsto di lasciare parte della nostra eredità per l’opera dell’evangelo? Siamo in grado di articolare una posizione pubblica sui temi del fine vita che non sia determinata dall’emotività, ma biblicamente responsabile? Sono tutte domande, insieme ad altre ovviamente, che dovremmo farci in spirito di preghiera e condivisione. 

Al di là del protocollo di London Bridge, c’è un’altra occasione pubblica per tematizzare la morte. Com’è noto, i radicali hanno raccolto le firme per il referendum per la legalizzazione dell’eutanasia. Ammesso e non concesso che la Corte costituzionale accetti il quesito nella sua formulazione attuale (ci sono dubbi in proposito), il tema dell’eutanasia è e sarà comunque argomento di dibattito pubblico. La speranza è che gli evangelici partecipino a questo dibattito in modo consapevole e, anche se esprimeranno contrarietà alla legalizzazione dell’eutanasia, colgano l’occasione per farlo con intelligenza spirituale e consapevolezza culturale. Magari andandosi a riprendere il documento del Centro Studi di Etica e Bioetica sull’eutanasia del 2003 (“Eutanasia”, Studi di teologia – Suppl. N. 1, 2003) che contiene molti spunti validi su cui imbastire la riflessione e l’azione.

Eccone uno stralcio di quel documento: “Per molte persone, parlare della morte è ancora un tabù culturale impastato di atteggiamenti superstiziosi e scaramantici. Affrontare poi la prospettiva della propria morte è un tema tenuto a distanza su cui si preferisce tergiversare e nutrirsi di menzogne. Una cultura che non aiuta a fare i conti con la morte è una cattiva cultura che ha bisogno di una riforma radicale. In questo senso, una visione del mondo deve saper coltivare il senso della finitudine della vita e l’apertura ad altre dimensioni di vita che vanno aldilà di quella biologica e fisica. La morte in generale e la propria morte, in particolare, devono essere sottratte a quell’area interdetta e riconsegnate ad una riflessione realistica e previdente. In questo lavoro di riforma culturale, un ruolo importante può essere svolto dalla testimonianza cristiana di credenti pacificati con la propria morte, dall’azione pastorale delle chiese rivolta ai malati e dall’opera di centri culturali che promuovono una prospettiva cristiana su questi temi”.

A distanza di quasi vent’anni, queste parole mantengono una certa attualità. Il nostro ponte da attraversare non sarà forse il London Bridge, ma comunque tutti passeremo il ponte tra la vita e la morte. Stiamo pensando ad un protocollo cristianamente responsabile per noi e per gli altri?


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