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Quale cielo ha contemplato l’Italia? Una delle ultime scene del film Dante

Una delle scene a più alto impatto emotivo del film Dante (del regista Pupi Avati), appena uscito nelle sale italiane, è verso la fine. Dante Alighieri si trova a Ravenna, esule dalla sua amata Firenze, mentre sta componendo la terza cantica della Commedia, il Paradiso. Per trovare ispirazione, trascorre notti intere steso in modo irrequieto sul pavimento della basilica di Sant’Apollinare in Classe, contemplando i famosi mosaici bizantini che raffigurano la volta celeste entro cui campeggia una croce gemmata con al centro il volto di Cristo dentro un medaglione circolare.

Il film rievoca la vicenda umana e poetica di Dante, intrecciandola ad un viaggio che Boccaccio fece da Firenze verso Ravenna, essendo stato incaricato di portare alla figlia dell’ormai defunto poeta una ricompensa tardiva per i torti subiti dalla città. Con la tecnica dell’incrocio di storie, il viaggio di Boccaccio è inframmezzato da spezzoni di vita di Dante sino all’epilogo a Ravenna, dove si era conclusa la sua vita e dove termina anche il viaggio di Boccaccio. 

Si diceva della scena in Sant’Apollinare in Classe. Sdraiato a pancia in su, Dante guarda il cielo stellato dei mosaici e, da quella visione protratta, la sua vena poetica viene nutrita. Il risultato è un capolavoro dell’ingegno, ma intriso di elementi biblici e non biblici, com’è tutta l’opera di Dante. La domanda che mi è sorta è stata: e se Dante invece di guardare il cielo tramite la mediazione dei mosaici bizantini, fosse tornato alla Scrittura e lì fosse rimasto, facendosi permeare dalla Parola di Dio? Ecco, Dante che contempla i mosaici di Sant’Apollinare in Classe è un’immagine della migliore cultura italiana: geniale, con sprazzi di lucidità, eppure dentro una volta celeste già “interpretata” da un cristianesimo compromesso, corrotto ed impermeabile alla riforma evangelica.

Dante non è stato un caso isolato. L’Italia del Duecento/Trecento ha avuto uomini notevolissimi: oltre a Dante (1265-1321), si pensi a Francesco d’Assisi (1182-1226), Tommaso d’Aquino (1224-1274) e Bonaventura di Bagnoregio (1221-1274), solo per citarne alcuni. A loro modo dei geni, delle personalità elevatissime, delle figure di grande spessore umano, teologico e spirituale. Eppure, nessuno di loro può veramente essere considerato un riformatore secondo l’evangelo. A Dante non mancava il coraggio tanto da mettere papa Bonifacio VIII all’Inferno (prima ancora che morisse) e da inveire contro la chiesa corrotta del tempo. Eppure la sua visione rimase impastata di elementi pagani e tradizionali che la resero spuria ed irrisolta. A Francesco non mancava la radicalità delle scelte personali e l’afflato evangelico. Eppure rimase addomesticato alla struttura ecclesiastica romana che ben presto ne riassorbì la spinta rinnovatrice. A Tommaso non mancava la visione d’insieme e l’acume dell’indagine. Eppure rimase invischiato in un sistema di pensiero ibrido e compromesso. A Bonaventura non mancava la profondità spirituale e lo scavo teologico. Eppure non uscì dal calco impregnato di tradizioni religiose devianti.

La cultura italiana può essere raffigurata nella scena in cui quel genio di Dante, steso sotto la volta di una chiesa, si pone alla ricerca spasmodica di Dio. Da quell’attività è venuto fuori un monumento della letteratura mondiale come il Paradiso, ma non le premesse per un rinnovamento duraturo e strutturale secondo l’evangelo. Come Dante, l’Italia è rimasta sotto la volta della chiesa ad ammirare la bellezza dei suoi mosaici, ma non si è aperta al messaggio biblico che invita a guardare il cielo creato secondo la Parola rivelata.


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