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La rabbia sociale. Buona la descrizione, parziale la soluzione

Da diverse settimane sto seguendo un interessante dibattito on line sul libro di Carlo Invernizzi-Accenti (professore ordinario di Scienze politiche alla City University of New York), Vent'anni di rabbia: Come il risentimento ha preso il posto della politica, Milano, Mondadori 2024.


Per Accenti, da più di vent'anni, in molte parti delle società occidentali emergono segnali di una rabbia diffusa nei confronti dell’establishment politico. In ordine di tempo, solo per citarne alcuni, si va dall'ascesa del partito di estrema destra francese di Marine Le Pen, ai roghi nelle banlieues francesi, l'inizio della crisi finanziaria globale del 2008-2011, il ‘Vaffanculo Day’ di Beppe Grillo. Le manifestazioni di rabbia collettiva hanno avuto un crescendo sempre più incalzante: dal movimento degli Indignados e Occupy Wall Street, alle più recenti proteste contro le operazioni del governo israeliano a Gaza, passando per la Brexit, al MeToo, e BlackLivesMatter, i discorsi di Greta Thunberg, il movimento dei Gilets Jaunes e quello dei NoVax, fino all'attacco al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021.


Per Accenti, sebbene questi eventi abbiano una storia e una loro specificità, c'è anche un filo rosso che li collega; la rabbia nei confronti delle istituzioni e dell’establishment politico. Se in passato, per placare questa rabbia bastava ridistribuire più equamente i benefici materiali dell'economia globalizzata, oggi non è più così. Tutte le ricette economiche messe in campo pare che non abbiano dissipato questa rabbia. Per Accenti il malcontento diffuso non può essere spiegato unicamente con criteri economici. Gli slogan delle principali mobilitazioni politiche citati prima non puntano in primo luogo a rivendicazioni di tipo economico, ma chiamano in causa la sfera del riconoscimento sociale, cioè il modo in cui ampi strati della popolazione si sentono percepiti, e quindi valutati, dal resto della società.


L'esempio dei ‘gilet gialli’, che hanno letteralmente la funzione di ‘farsi vedere’ sulle strade quando si è in panne,  manifesta un desiderio diffuso di visibilità, cioè di un riconoscimento, da parte del resto della società. A questo senso diffuso di mancanza di riconoscimento le due principali ‘formule’ politiche che hanno segnato la storia degli ultimi vent'anni: il populismo e la tecnocrazia, invece di lenire la rabbia sociale hanno contribuito ad esacerbarla.


Escluse “le cause materiali della rabbia”, Accetti ne esamina altre due: quella del populismo, cioè l'idea che si possa far fronte alla rabbia con risposte “simboliche” quali l'elevazione di “figure diverse” che “incarnano nella loro biografia un messaggio politico netto”, e quella della tecnocrazia che pretende di praticare il ‘buon governo’, ma prescinde completamente dalla dimensione della partecipazione collettiva perché nei fatti riproduce "la riduzione del popolo al ruolo di ricezione passiva dell’operato di governo".


Cosa propone Accenti? L'origine del problema è la distinzione che per anni si è fatta tra ‘politica’ e ‘società’. Si è sempre pensato che ‘la politica’ debba offrire una risposta alle molteplici espressioni di rabbia sociale. A sostegno, cita la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, il quale affermava che il riconoscimento sociale non è una cosa che può semplicemente essere data da un individuo a un altro, o dalla società nel suo insieme ai suoi membri. Esso deve per forza essere ottenuto dagli individui (o dai gruppi) in prima persona, attraverso una “lotta per il riconoscimento”. In altre parole, la rabbia del nostro tempo non può semplicemente essere ‘curata’, come una malattia, da un agente esterno. Sono gli individui e i gruppi arrabbiati a doverla superare attraverso uno sforzo specifico e in prima persona.


"L'azione politica non è più qualcosa che fanno ‘altri’ su un palcoscenico remoto, ma qualcosa di cui ci dobbiamo prendere responsabilità noi stessi... La rabbia è solo l'inizio di un processo di politicizzazione". Per Accenti, ciò che è mancato alle mobilitazioni collettive sono il senso di una "finalità concreta e l'organizzazione interna", capaci di trasformarle da reazioni emotive a progetti politici indirizzati e duraturi. In poche parole, per Accenti la rabbia ha prodotto due fallimenti; credere che la classe politica abbia il dovere di soddisfare il bisogno di senso e la sua incapacità nel fornire le giuste soluzioni a problemi reali.


La lettura del libro mi ha fatto venire in mente un il discorso inaugurale della Liberà Università di Amsterdam nel 1880, quando Abraham Kuyper parlò della sovranità delle sfere. Kuyper metteva le responsabilità di ciascuno in relazione a qualcos’altro: "la sovranità originale assoluta non può risiedere in alcuna creatura ma deve coincidere con la maestà di Dio. Questo Sovrano supremo ha delegato e continua a delegare la propria autorità a esseri umani. Questa la si vede esercitata negli uffici umani" (p.47). Dove manca questa responsabilità davanti a Dio, dove non c’è la comprensione del proprio ufficio come delegato ed in relazione ad altri, tutto viene sconquassato e diventa oggetto di costanti rivendicazioni e conflitti.


Inoltre, nell'analisi di Accenti, pur con tanti punti condivisibili, manca il concetto di chiamata o di vocazione personale (di Beruf per usare l'espessione luterana): cioé la persuasione che una particolare attività corrisponde alla volontà di Dio per la quale sono stato dotato e attraverso la quale servo Dio e la società. Le complessità nel mondo del lavoro sono tante, spesso provocano rabbia, tensioni e perdita di senso, ma la persuasione di essere chiamati da Dio in una particolare sfera e lavoro, oltre a essere l'antidoto migliore per superare queste tensioni, conferma che la propia dignità non dipende in ultima analisi dalla considerazione sociale.


E’ come se Accenti aiuti nella descrizione del problema e dei suoi effetti, ma molto meno nella diagnosi più profonda dello stesso e men che meno nella soluzione. Il suo è un pensiero chiuso nelle relazioni storiche orizzontali ed immanenti. Eppure, se non riconosce la complessità della realtà creata (la diverse sfere), se non si prende di petto il problema di fondo (il peccato e le sue ricadute sociali), non si può nemmeno intravedere la soluzione che l’evangelo indica.


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