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Saman, la vita divisa tra due mondi contrapposti

Un nome diventato tristemente noto in questi ultimi tempi è quello della giovane pakistana, presumibilmente uccisa dai famigliari perché si rifiutava di sottostare a un matrimonio combinato. Di lei colpiscono due immagini molto diverse: quella in cui la giovane ha il capo e il volto fasciati dal velo e un timido sorriso, e l’altra di una ragazza dai capelli corvini sciolti sulle spalle e il rossetto sulle labbra. Saman, in apparenza una ragazza come tante, portava dentro di sé un dramma, il conflitto tra due appartenenze: alla famiglia, legata a tradizioni tribali, e anche alla società postmoderna che ha conosciuto nel nostro Paese. Anche se non è politicamente corretto farlo, si può dire che il sostrato di queste opprimenti tradizioni è la religione islamica che, notoriamente, non riconosce alle donne quello spazio di libertà che invece appartiene alla dotazione di persone create ad immagine di Dio, esattamente come i maschi?

Nell’esprimere cordoglio e dolore per la sua fine, molti commentatori si ergono a difensori della cultura occidentale contro la barbarie dei suoi famigliari, ma dimenticano che, nella nostra Italia così civilizzata e organizzata secondo uno Stato di diritto, ogni giorno ci sono mariti che uccidono mogli, madri che uccidono figli, figli che uccidono genitori, nipoti che uccidono nonne… e non in nome di un qualche tipo di “onore” famigliare, ma per pura empietà. 

Se consideriamo ciò che avviene tra gli italiani, non possiamo sostenere la presunta superiorità della nostra cultura rispetto a quella dei paesi meno sviluppati. Certo, qui i bambini vanno a scuola, e la giovane Saman ci è andata con profitto. Qui i giovani possono sposare chi vogliono, e possono anche divorziare. Tuttavia, qui né la scuola, né le altre istituzioni (casa protetta, autorità ecc.) hanno potuto prevenire ed evitare il peggio.

Si invocano allora una migliore accoglienza e una più profonda e integrazione sociale e culturale, perché si pensa che basti l’amicizia tra i popoli, la fratellanza universale, il nuovo umanesimo, per riconciliare l’umanità con se stessa. Qualcuno vorrebbe incoraggiare l’iniziativa delle ragazze pakistane e italiane, come se l’unione delle donne facesse la differenza, mentre gli uomini non potessero o dovessero essere chiamati in causa! Queste constatazioni fanno emergere tutti i limiti di una cultura e di una civiltà, come la nostra, che pensa di curare il tumore con un cerotto umanista, e si rifiuta di vedere la profonda decadenza materiale, morale e spirituale della nostra umanità. 

Il problema è molto più radicale e non si risolve solo a livello orizzontale. Il problema è la separazione dell’uomo dal suo Creatore, che ci ha portato alla separazione da tutto il resto: dalla vita, da noi stessi, dal prossimo. Queste tragedie sono solo la punta dell’iceberg, le emergenze di una condizione strutturale deprivata del bene, in cui tutti ci troviamo per natura, anche se possono poi manifestarsi ad intensità diversa. 

Gli opinionisti e i social invocano misure “umaniste” presupponendo la bontà dell’essere umano e la possibilità di soluzioni con le solite ricette: più scuola, più integrazione, più dialogo, ecc. Tutto questo è necessario, ma non sufficiente. L’analisi cristiana deve essere più radicale e puntare al cuore del problema. 

Detto questo, la vita in mondi conflittuali e non comunicanti è esperienza di tante persone, anche professanti la fede evangelica. Pensiamo ai tanti ragazzi e ragazze “nuovi italiani”, di famiglie evangeliche di recente immigrazione. Da un lato, vivono contesti culturali legati ai loro Paesi d’origine, fatte di tradizioni, abitudini, stili di vita, codici di abbigliamento, ecc. Dall’altro, essendo scolarizzati, sono immersi nel turbinio della cultura giovanile occidentale. Quante “saman” ci sono in mezzo a noi. Quante pressioni ricevono. Quanti pesi portano. Riusciamo a stabilire ponti con modi culturalmente diversi eppure spiritualmente vicini a noi? Proviamo ad aiutare i “nuovi italiani” a trovare nella famiglia evangelica allargata una comunità che costruisce ponti, che combatte la ghettizzazione, che ascolta le giovani e che sa accompagnare verso percorsi di maturità? 


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