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Se questa è apologetica. Nota a margine di un’intervista al teologo valdese Paolo Ricca

Apologetica è una bellissima parola biblica (1 Pietro 3,15), diventata ingombrante per gran parte della teologia contemporanea. Nelle chiese cristiane (non quelle evangeliche) è scomparsa dal vocabolario comune. Essa suscita imbarazzo se non proprio avversità. L’idea di difendere la fede e presentarla in modo persuasivo e finalizzato alla conversione è considerata figlia di una stagione superata e da cui prendere congedo.

Il protestantesimo liberale ha preso le distanze dalla chiamata apologetica della fede. Non ha più sfidato la cultura, ma ha cercato di ripensarsi dentro le strutture di plausibilità della modernità (prima il sentimento romantico, poi la ragione illuminista, oggi le direttrici molteplici del politicamente corretto). Il risultato è che la cultura ha mangiato, metabolizzato e quasi del tutto espulso il protestantesimo liberale dalla sua pancia: da decenni, ormai, le chiese protestanti storiche vivono una stagione di declino. Alla luce di tutto ciò, ha destato un certo interesse l’uscita del libro di Paolo Ricca, Dio. Apologia, Torino, Claudiana 2020, in cui la parola apologia compare nel sottotitolo.

 Anche per questa ragione, il libro merita attenzione. Un invito alla lettura è dato da una recente intervista dello stesso Ricca in cui i temi del libro sono accennati: “Un’apologia contro il silenzio su Dio” (Confronti, 30 agosto 2023). Giustamente, Ricca inizia dicendo che uno dei problemi delle chiese di oggi è che esse parlano di tutto (le opere, i poveri, i diritti, il clima), ma non parlano più di Dio. C’è da stupirsi? Parlare di Dio (del Dio biblico) è sempre contro-culturale. Se le chiese hanno deciso di adeguarsi alla cultura, è la cultura ad imporre loro i temi, l’agenda, il linguaggio: le opere, i poveri, i diritti, il clima. Dio, al massimo, diventa un inutile sovrappiù.

 Ricca intelligentemente nota il problema di fondo, ma qual è la sua proposta “apologetica”? Nell’intervista ci sono alcuni spunti: eccone uno. Ad esempio, a Ricca viene chiesto come avvicinarsi al tema del peccato originale. Qui, il teologo valdese dice che la chiesa antica (Agostino) ha mal posto la questione. In realtà, seguendo la proposta della teologa Lytta Bassett, bisogna invertire tutto il discorso e parlare non di “peccato originale” ma di “perdono originale”. Venendo al mondo, non nasciamo peccatori, ma già perdonati. Ecco Ricca: “Ogni persona vivente non parte svantaggiata, con un ‘handicap spirituale’, ma ricolma della grazia di Dio: poi ognuna sarà giudicata se, liberamente, nella vita avrà scelto il bene o il male”.

 Questa visione del perdono originale è alla base di molta teologia contemporanea: cattolica, ecumenica, neo-liberale. E’ anche l’esito dell’universalismo della teologia di Barth a cui Barth stesso non osa giungere ma che è la conseguenza ovvia del suo pensiero. E’ la stessa matrice da cui papa Francesco sostiene che siamo tutti figli di Dio, tutti fratelli. Ed è la base anche dell’inclusivismo religioso che ritiene la via di Gesù Cristo una tra le tante vie verso Dio, forse la più completa, ma una tra le altre. D’altra parte, se nasciamo già perdonati, ognuno percorre la strada che crede, tanto Dio ci avrebbe già perdonati in partenza. Sì, teoricamente ed astrattamente il peccato rimane, ma non più come rottura dell’alleanza meritevole del giusto giudizio di Dio quanto piuttosto come avvertimento a vivere la nostra libertà in modo responsabile.

 Questo è solo uno spunto, ma nell’intervista ce ne sono molti altri: sulla Trinità, sul gender, sul femminismo. In ognuno di essi, Ricca vuole ri-parlare di Dio, ma lo fa volendo reiterare tutto il portato della teologia che ha portato a rendere Dio superfluo. E’ questa l’apologetica di cui la chiesa deve riappropriarsi e di cui il mondo ha bisogno?

 Parlare di Dio, testimoniare di Dio, vivere per Dio (il Dio biblico, il Dio di Gesù Cristo) può accadere se c’è la prontezza a sfidare i “dogmi” del teologicamente corretto: siamo tutti buoni, tutti accettati, tutti perdonati. Se si tratta solo di vezzeggiarli, non sarà ancora un “rendere ragione della speranza che è in voi” ma un’ulteriore voce alla ribellione dei cuori e delle menti.


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