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Solo vittorie, niente sconfitte. La Colonna Traiana e le tentazioni per il culto cristiano

Ogni domenica, prima del culto evangelico, passo davanti alla Colonna Traiana che si trova a pochi passi dalla sala della chiesa. La Colonna è uno delle icone della Roma imperiale. Alta quasi 40 metri, fu realizzata dall’imperatore Adriano (76-138 d.C.) per celebrare le sue vittorie nella conquista della Dacia. In uno straordinario movimento elicoidale, raffigura scene di guerra in cui le legioni romane sopraffanno la resistenza dei soldati daci. 

Nel passargli accanto, spesso lo sguardo si sofferma su una scena o l’altra per ammirare l’intarsio o scorgere un particolare. Quello che recentemente mi ha dato a pensare è stata la lettura di un articolo di Siegmund Ginzberg, “La Colonna Traiana, capolavoro di propaganda” (Il Foglio, 1/8/2022). Più che soffermarsi sulle proprietà artistiche della Colonna, l’articolo ne esamina il portato ideologico. 

Anche all’osservatore distratto, un particolare emerge con chiarezza. Nelle scene raffigurate, i romani vincono sempre e i daci perdono sempre. I primi hanno sempre la meglio, i secondi sempre la peggio. Si tratta, evidentemente, di propaganda, cioè della volontà non di descrivere la realtà dei fatti, ma di costruire la realtà in modo artificioso da veicolare un messaggio politico: Roma è invincibile. E’ chiaro che sul campo di battaglia, non sempre i romani hanno vinto sui daci, ma la Colonna di Traiano seleziona gli episodi in modo tale da cucire il vestito dell’invincibilità di Roma. Chi guarda la Colonna vede un momento ideologico, non una testimonianza storica.

Siccome incrocio la Colonna prima e dopo il culto, mi chiedo se la carica “ideologica” di questo importante monumento romano non sia anche descrittiva dell’atteggiamento con cui ci prepariamo al culto e in cui viviamo il culto domenicale.

La domanda che mi pongo davanti alla Colonna è: i nostri culti contengono della propaganda? Mi spiego: nelle preghiere, nei canti, nelle testimonianze, nei sermoni, rappresentiamo un mondo in cui ci descriviamo come invincibili, vittoriosi, sempre all’altezza delle situazioni e in possesso delle soluzioni? I nostri culti danno un’immagine della vita cristiana come se non ci fossero mai delle sconfitte, delle perdite, dei prezzi da pagare? I nostri canti contengono solo parole di vittoria e di “potenza” o sono aperti alla condivisione della sconfitta, all’esperienza della crisi, al vissuto della precarietà? Le nostre testimonianze non corrono il rischio di essere come le strisce della Colonna in cui la realtà è manipolata in funzione di un obbiettivo ideologico fittizio e non in base alla realtà dei fatti? 

Contrariamente all’ideologia imperiale che può solo nutrirsi di menzogne artefatte, la vita cristiana può vivere in Cristo e con Cristo sia la vittoria, sia la sconfitta. In Lui siamo certamente “più che vincitori” (Romani 8,37) e in Lui possiamo anche vantarci della nostra debolezza (2 Corinzi 11,30). In Lui possiamo festeggiare il dono della giustificazione già acquisita per i Suoi meriti e possiamo anche riconoscere che il nostro cammino è in divenire, a volte nella tempesta, altre volte in un percorso in salita di cui non vediamo il passo successivo. 

Nella liturgia del culto cristiano, la confessione di peccato è un momento importante in quanto ci ricorda che siamo sempre peccatori, salvati per grazia soltanto e riscattati dalle conseguenze penali del peccato, ma sempre in lotta con le influenze del peccato nella vita. La confessione di peccato all’interno del culto impedisce di trasformarlo in un’esibizione muscolare e gli permette di stare dentro la realtà descritta da Dio. E’ triste constatare che nei culti evangelici la confessione di peccato non ci sia quasi più. Senza confessione di peccato, il nostro culto è maggiormente esposto al rischio ideologico.

Anche le testimonianze, oltre a registrare e a celebrare le benedizioni divine ricevute, devono echeggiare il senso del combattimento cristiano, fin anche la sua asprezza, e confessare la nostra vulnerabilità. Altrimenti diventano vetrine di manichini artificiali. Il culto non deve essere una cartolina falsificata del cristianesimo, ma la sua rappresentazione realistica, tra il “già” della prima venuta di Gesù Cristo e il “non ancora” della sua seconda venuta.

La vita cristiana non ha le sembianze di una Colonna propagandistica, ma, come ricordava Martin Lutero, ha sempre la forma della croce di Gesù Cristo in cui il dolore e la gloria si incontrano, l’umiliazione e l’esaltazione si abbracciano e dove si realizza l’identificazione con Cristo nella morte e nella vita (2 Corinzi 4,10-11). L’impero aveva bisogno di un’ideologia che ne esaltasse l’invincibilità; la chiesa sa che le porte dell’Ades (Matteo 16,18) non prevarranno non per una sua proprietà intrinseca, ma solo perché il Signore della chiesa è morto sulla croce e risorto dai morti chiamandola a percorrere il saliscendi della storia per Lui e con Lui.


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