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Una chiesa viva è una chiesa matura, non giovanilistica

Il tema dello sviluppo e della maturità spirituale è molto spesso associato nell’editoria evangelica all’esperienza del singolo credente, come se fosse un’opzione personale in appendice alla conversione e a disposizione degli spiriti più esigenti. Meno frequentemente però il tema è associato alla ecclesiologia, alla maturità spirituale nella vita della chiesa in quanto comunità locale e il suo ruolo in relazione al contesto storico e culturale in cui la chiesa vive e cresce. Non si tratta certo di un argomento di poco conto se si pensa all’ammonimento che gli autori della lettera agli Ebrei rivolgono alla chiesa che si nutre ancora di “latte” quando dovrebbe già mangiare “cibo solido” (Ebrei 5,11-14).

Thomas E. Bergler ha esaminato il tema ripercorrendo quel processo che definisce di “giovanilizzazione” e che ha condotto le chiese cristiane americane verso ciò che egli indica come uno stato di adolescenza perenne (The Juvenilization of American Christianity Grand Rapids, Eerdmans 2012).


A partire dal 1930 gli enormi cambiamenti politici e le questioni socio-culturali emerse hanno avviato un processo di disaffezione delle giovani generazioni verso la fede e la religione in generale. La risposta a questa tendenza da parte delle chiese evangeliche in particolare è stata un grande investimento per raggiungere le giovani generazioni percepite come la chiave per risolvere la “crisi della civiltà” (p.209). 


Tra la metà degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta nascevano così organizzazioni para ecclesiali come Youth for Christ e Campus Crusade for Christ, che investivano enormi risorse economiche e umane in programmi giovanili, grandi raduni e attività nei campus universitari e che garantirono anche durante i periodi più bui degli anni ’60 e ’70 che una buona parte di quella generazione di americani continuasse a “frequentare la chiesa” e in molti casi anche a prendere seriamente la fede. 


Questi gruppi sono stati per molti versi dei laboratori in cui la fede biblica incontrava le esigenze e le questioni della cultura del tempo, proponendo un adattamento creativo che ha garantito che il protestantesimo conservatore fosse ancora appetibile. Quel modello pensato per un contesto extra-ecclesiale si sviluppò fino a diventare successivamente il riferimento di grandi chiese come la Willow Creek Community Church di Bill Hybels o la chiesa “condotta da propositi” di Rick Warren che hanno influenzato enormemente l’evangelismo americano e internazionale. Secondo l’autore ciò ha promosso a lungo andare una ecclesiologia segnata dalla informalità, dalla brevità, dall’intrattenimento perdendo al contempo alcuni dei tratti caratteristici dell’ecclesiologia evangelica confessante.


La giovanilizzazione, come la definisce l’autore, “è il processo mediante il quale le credenze religiose, le pratiche e le caratteristiche evolutive degli adolescenti vengono accettate come appropriate per i cristiani di tutte le età. Inizia con l'obiettivo lodevole di adattare la fede per attrarre i giovani. Ma a volte finisce male, con giovani e adulti che abbracciano versioni immature della fede” (p.4).


La contestualizzazione certamente è un elemento fondamentale nella missiologia cristiana. Contestualizzare la fede vuol dire renderla accessibile, comprensibile e rilevante per ogni cultura, ogni persona e ogni età. Ma contestualizzare non significa assecondare le caratteristiche di una cultura, o di un gruppo, soprattutto se queste esasperano e idolatrano elementi creati (es. l’autoaffermazione, il consumismo o il divertimento). Significa piuttosto esaminare alla luce della Scrittura le istanze di quella cultura per mostrare che la proposta dell’evangelo di Cristo è migliore di qualsiasi altra proposta culturale. L’Evangelo non rinchiude in un limbo adolescenziale incapace di affrontare la vita vera, ma immette nella comunità di Dio, che vive la vita in Cristo in un cammino di maturazione continua fino alla fine. La chiesa dovrebbe riscoprire l’insegnamento del Nuovo Testamento sulla crescita dall'infanzia spirituale alla maturità spirituale per assicurarsi di assecondare questa crescita piuttosto che impedirla o frenarla.


Se la giovanilizzazione della chiesa avesse raggiunto lo scopo di mostrare ai giovani che l’evangelo ha ancora senso nel nostro millennio, probabilmente il 4° congresso di Losanna a Seul non avrebbe inserito le giovani generazioni tra i 25 gap da affrontare per onorare il Grande Mandato di Cristo. 


La chiesa non vincerà la sfida di raggiungere le giovani generazioni ringiovanendo e nemmeno ingessandosi o irrigidendosi su forme del passato, piuttosto mostrando la maturità necessaria per accogliere e affrontare le domande, i bisogni, le sfide che le nuove generazioni portano con la sempiterna saggezza della Parola di Dio, crescendo con loro e onorando l’immagine Dio in loro la quale reclama la santità e la gloria e non la mediocrità. La chiesa è una famiglia in cui le generazioni si incontrano, non si escludono. La chiesa non è “per giovani” soltanto, ma per tutti. Una chiesa giovane è una chiesa matura, non giovanilistica.