Generazione Ansia. Quando la paura blocca serve un rimedio profondo
Le emozioni sono un buon dono di Dio, sono una parte essenziale della vita umana creata che le dà colore sia nel suo insieme sia nelle nostre individualità. Le emozioni sono pensate per la gloria di Dio e perciò vanno coltivate ed educate.
Tutti, in qualche misura, abbiamo sperimentato il peso di emozioni distorte, represse o esagerate in noi o nelle persone attorno a noi, vicine e anche amate. Il peccato ha rovinato anche le nostre emozioni.
La paura che si tramuta in ansia ne è un esempio. Essa sembra essere una delle emozioni più diffuse tra le giovani generazioni.
Il celebre saggista Jonathan Haidt ha identificato nella generazione Z quella ansiosa per eccellenza (Generazione ansiosa, Milano, Rizzoli 2024) a causa del loro essere nati e cresciuti in un nuovo mondo completamente digitale al quale nessuno li aveva preparati. Ma quell’ansia si è protratta e c’è chi ha denominato anche gli adolescenti contemporanei “Generazione Ansia”. [1]
Lo psico-pedagogista Stefano Rossi la descrive come una generazione estremamente diversa dalle precedenti perché se un tempo ai ragazzi veniva chiesto di essere “dei bravi ragazzi” avendo come riferimento uno standard etico-morale di tipo verticale, oggi viene chiesto loro di essere performanti, delle “medaglie d’oro”, avendo uno standard di riferimento di tipo orizzontale, idealistico, in competizione gli uni con gli altri.
Se le richieste di un tempo, secondo Rossi, generavano senso di colpa, oggi generano ansia e inadeguatezza, paura di cadere, fallire, innescando una paura che blocca anche nelle cose più semplici della quotidianità.
Analisi sociologica estremamente chiara e realistica. Ma qual è la soluzione? Il genitore deve passare dall’essere scultore che scalpella la sua immagine ideale del figlio perfetto “ferendolo” con le sue alte aspettative, a essere genitore floricoltore che non ha un’immagine idealizzata, ma è piuttosto paziente ed ama il figlio per ciò che è, perché ha fede nel figlio.
I genitori cristiani non dovrebbero mai usare lo scalpello delle proprie aspettative e del legalismo morale per fare dei figli ciò che desiderano perché ciò li allontanerebbe da Cristo.
Ma ugualmente non ci sarà alcun vero aiuto, per affrontare la paura che blocca, semplicemente nel riporre la fiducia in loro e nelle loro capacità. Il mantra del “ce la puoi fare” non sconfigge davvero alla fonte la paura che blocca, perché getta tutta la responsabilità dell’alterazione emotiva fuori di noi, nel contesto sociale, nella cultura della prestazione, che ad ogni fallimento metterà ancora più in risalto la nostra impotenza.
La Scrittura, invece, invita a riconoscere che le nostre emozioni sono sempre plasmate da ciò che amiamo, come mostrano bene Groves e Smith nel loro libro Untangling emotion (Wheaton, Crossway 2019). Non sono solo distorte dall’esterno, ma prima di tutto dall’interno, perciò noi siamo responsabili nell’identificarle, esaminarle, valutarle e agire di conseguenza.
Il ruolo dei genitori, perciò, è certamente determinante ma va molto oltre l’incoraggiamento, la pazienza e l’empowerment. Il genitore deve aiutare la propria figlia, o figlio, a mettere a nudo il proprio cuore e così aprire la strada a Cristo, il solo che può liberare dalle paure.
La paura è il segnale buono che Dio ci ha donato, che qualcosa a cui noi diamo valore è sotto attacco, il suo futuro è incerto e potrebbe andare perduta.
La paura è estremamente positiva quando ci aiuta a identificare pericoli reali e se si attiva per ciò che ha un effettivo e profondo valore.
Purtroppo, molte volte la paura può essere irrealistica o può spingerci agli estremi nelle relazioni umane. Per paura possiamo fare o non fare qualcosa, per paura possiamo isolarci dalle persone o al contrario legarci in una idolatrica dipendenza. Il genitore può aiutare il ragazzo a riconoscere tali paure, riconoscendole anche in sé stesso.
Come? Certamente è necessario riflettere sull’entità dell’impatto qualora lo scenario che ci spaventa si realizzasse sul serio. Ma ciò non basta per arrivare al cuore: è necessario cambiare prospettiva e assumere quella di Dio. Ciò che temo di perdere è davvero così prezioso? Come vede Dio la mia situazione? C’è forse un idolo dietro le mie paure?
A volte temiamo di perdere ciò che in realtà Dio odia, oppure qualcosa che è necessario perdere perché la gloria di Dio sia manifestata nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Insieme ai nostri figli dobbiamo vedere che a volte la causa delle nostre ansie sta nell’oggetto del nostro amore mal riposto.
Non bastano tempo, fiducia e messaggi motivazionali. C’è bisogno della Parola di Dio che indica in chi possiamo davvero porre fiducia per affrontare tutte le paure (Salmo 27, 1 Pietro 5,7) e che dà gli strumenti per valutare in modo realistico e veritiero se ciò che amiamo è degno del nostro amore e che, infine, ci consola ricordandoci che “tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio” (Rom 8,28).
Identificare, esaminare, valutare le nostre paure alla luce della Bibbia darà anche le risorse necessarie, per la potenza dello Spirito Santo, di affrontarle per vincere ciò che blocca la vita.
Dov’è il nostro tesoro, lì c’è anche il nostro cuore e quindi le nostre paure. Solo se Cristo è il tesoro del nostro cuore le nostre paure saranno realistiche e ci spingeranno in avanti piuttosto che bloccarci. Questa verità, uguale per ogni generazione, è anche quella che potrà guarire la generazione Z e le successive.
[1] Stefano Rossi, Se non credi in te, chi lo farà? L'arte di sopravvivere all'adolescenza, Milano, Feltrinelli 2024.