Le tre anomalie della fine del governo Draghi
Si potrebbe dire che la fine del governo Draghi sia stata anomala. Ma si potrebbe altrettanto sostenere che il governo Draghi stesso fosse anomalo. Dunque, un’anomalia ha messo fine ad una precedente anomalia mettendo in evidenza l’anomalia del sistema politico italiano. Tre anomalie che si sono intrecciate. Vediamole in rapida successione.
L’anomalia della fine. Si considerino le emergenze attuali (guerra in Ucraina, crisi energetica, inflazione e recessione economica, tra le altre) bisognose di un governo nel pieno possesso dei suoi poteri; si consideri che la legislatura sarebbe comunque finita a marzo 2023; si consideri inoltre il fatto che Draghi godesse di un certa stima in molti (non tutti) consessi internazionali. Dunque, la stabilità del governo avrebbe giovato alla situazione in questo momento critico senza pregiudicare il ciclo costituzionale della democrazia elettiva. Se si fossero avuti a cuore gli interessi “generali” del Paese il governo Draghi avrebbe dovuto arrivare alla scadenza naturale dell’anno prossimo. La fine anticipata è dovuta all’anomalia che gli interessi di partiti in difficoltà hanno prevalso sugli interessi generali del Paese. Per motivi diversi, i 5 stelle, la Lega e Forza Italia non potevano arrivare alla fine e poi inventarsi una campagna elettorale diversa dall’agenda Draghi. Ciascuno per il proprio interesse di parte, hanno “dovuto” riposizionarsi per avere le mani libere in vista delle elezioni. Il loro interesse particolare ha prevalso su quello generale e ciò ha portato all’anomalia della fine. E’ anche vero che gli stessi partiti (5 stelle, Lega e Forza Italia) sono stati quelli che si sono opposti all’elezione di Draghi alla presidenza della Repubblica non più tardi di 5 mesi fa con l’argomento che il governo stava facendo bene e doveva andare avanti ... In realtà, quell’opposizione allora rivelava come ci fosse un conto in sospeso con Draghi che ora gli è stato fatto pagare in pieno.
L’anomalia del governo Draghi. A ben vedere, il governo Draghi era portatore di una propria anomalia. Draghi è stato chiamato dal presidente Mattarella a formare il governo in un momento in cui i partiti non erano in grado di esprimere una coalizione avente una qualche logica politica. Dopo il governo 5 stelle-Lega e dopo il governo 5 stelle-PD, il parlamento sembrava incapace di esprimere uno straccio di prospettiva. Mattarella ha allora chiamato un “non politico” come l’ex-presidente della BCE. Nel suo discorso al Senato la settimana scorsa, Draghi ha detto di essere stato chiamato “dagli italiani”. In realtà, è stato Mattarella a chiamarlo: il popolo italiano ha assistito impotente al triste spettacolo offerto dalla sua classe dirigente. Draghi ha formato un governo “anomalo” frutto del suo appello a tutte le forze parlamentari a cui sono Fratelli d’Italia si è sottratta. Un governo ammucchiata con l’80% dei voti, in cui sono presenti rossi, verdi, gialli e azzurri, è anomalo sul piano politico. Solo (e solo in parte) l’autorevolezza personale del Presidente è riuscita a nasconderla. Il governo Draghi era portatore di una sua “innaturalezza” che non poteva reggere troppo a lungo; era una costruzione artificiosa e forzata che non ha resistito alla ripresa di vigore degli interessi particolari dei partiti. Chi difende il governo Draghi non deve dimenticare questa sua anomalia costitutiva che lo ha reso un fragilissimo coacervo dal primo all’ultimo giorno.
L’anomalia del sistema politico. C’è una terza anomalia che la fine della legislatura ha messo in evidenza in termini ancora più chiari. E’ la natura stramba del sistema politico italiano: un carrozzone di quasi mille parlamentari più altre migliaia di portaborse e collaboratori che fa e disfa le tele del governo senza avere il bandolo della matassa. Ogni tanto, quando la confusione diventa parossistica, viene chiamato un “podestà” esterno (prima Monti, poi Draghi) per rimettere ordine alla diatribe interne, salvo poi venire irretito nella vischiosità del sistema per esserne definitivamente risucchiato. Le nuove elezioni del 25 settembre, per quanto necessarie per rispetto alla Costituzione, non saranno risolutive. Con lo stesso sistema malato e caratterizzato dalle medesima (in)cultura istituzionale, c’è il rischio che sia un altro giro a vuoto di giostra. Si resetterà l’orologio, ma senza risolvere il guasto, l’orologio si fermerà al primo giro.
Che fare? Tre spunti. Primo, per donne e uomini di fede evangelica, la prima responsabilità è di pregare per le autorità. Quale migliore occasione di pregare durante i culti domenicali di qui alle elezioni del 25 settembre! Secondo, la cultura evangelica ha abbozzato una griglia per pensare in un’ottica diversa al futuro del Paese. Pur se datato, il documento “Per il bene dell’Italia” (2008) dell’Alleanza Evangelica Italiana conserva una sua freschezza che può dare utili spunti. Terzo, cogliamo l’occasione delle elezioni non per alimentare i qualunquismi evangelici, ma per prepararci in modo spiritualmente vigile e culturalmente attrezzato. Un modo per farlo è usare il “Vademecum per le elezioni” (tratto da Studi di teologia N. 34 [2004]) per animare conversazioni a gruppi.