L’immoralità di un teologo squalifica la sua teologia? Il caso di Karl Barth
Non è mai stato un mistero che Karl Barth (1886-1968), da molti considerato il più grande teologo del Ventesimo secolo, abbia intrattenuto una pluridecennale relazione con la sua segretaria Charlotte von Kirschbaum. Sposato con Nelly Hoffmann, padre di cinque figli, Barth sviluppò un rapporto sentimentale tanto profondo con la segretaria da farla abitare insieme alla sua famiglia. Questa forma di coabitazione tra marito, moglie e amante non fu priva di tensioni e schermaglie, ma durò per molti anni e alla fine fu accettata da entrambe le donne. Di questa storia parla il carteggio tra Barth e Charlotte da poco pubblicato in italiano: Un amore. Lettere 1925-1935, a cura di B. Ravasi e F. Ferrario, Torino, Claudiana 2022.
Fa una certa impressione che il teologo che scrisse l’Epistola ai Romani, la Dogmatica ecclesiale e che redasse la “Dichiarazione di Barmen” (1934) contro il nazionalsocialismo, tutti monumenti della teologia contemporanea, fosse in termini biblici (che lui peraltro apprezzava) un adultero impenitente. Come può la teologia cristiana convivere con l’adulterio come stile di vita? Non è un prurito moralistico: è primariamente una questione teologica. Può una sana teologia venire da una persona che ha plasmato gli impegni profondi della vita intorno a scelte individuali peccaminose così evidenti e protratte, così impattanti la vita personale e deliberatamente compiute?
Era sin qui chiaro che la sua teologia neo-ortodossa aveva cercato di riabilitare la teologia evangelica ortodossa (appunto) dopo l’attacco del liberalismo, ma aveva conservato tracce profonde di pregiudizi liberali, ad esempio nei confronti della suprema autorità della Scrittura. Dunque, quel “neo” definiva l’ortodossia di Barth nel senso di avvicinarsi all’eredità della Riforma protestante, senza staccarsi dall’impianto liberale che l’aveva sostanzialmente rigettata. Barth si colloca lì, in mezzo al guado: con un piede nell’ortodossia e un altro nella sua posizione contraria. Alcuni evangelici lo vedono come un difensore della teologia tradizionale, altri lo leggono come un reiteratore del liberalismo sotto altra forma. Barth sembra spostarsi ora verso un lato, ora verso l’altro. La sua teologia è “dialettica” proprio perché non riposa su una piattaforma coerente.
Forse la biografia di Barth getta ulteriore luce sulle contraddizioni teologiche di Barth. Come poteva la sua teologia recuperare l’integrità della teologia evangelica quando le sue scelte di vita erano gravemente compromesse dall’adulterio strutturato nel suo cuore e nelle sue pratiche? Poteva la sua teologia essere diversa da un coacervo di spunti illuminanti e crolli imbarazzanti, quando la sua vita era costantemente e volutamente intrisa di adulterio. Non era l’adulterio stesso un cedimento al principio liberale secondo cui la Scrittura (che lo vieta e da cui mette in guardia) non è l’ultima autorità in materia di fede e di vita? Non è l’adulterio pluridecennale specchio di un compromesso teologico profondo?
Certo, siamo tutti peccatori e la salvezza è per grazia soltanto. Non si tratta di fare i bacchettoni, ma di prendere sul serio l’insegnamento biblico anche se questo cozza contro la statura imponente di Karl Barth. La teologia evangelicale ha sviluppato una propria lettura di Barth e lo studia con discernimento, con un misto di attenzione e di perplessità. Siccome la biografia non è sganciata dalla teologia, forse sarebbe il caso di rileggere Barth anche dal punto di vista della immoralità delle sue scelte di vita? Non si trova lì una chiave di lettura delle sue contraddizioni teologiche?