Non tutto, né niente. Cosa ci dice un’immagine della realtà?
Quanto chiediamo all’immagine? Troppo o troppo poco? Può questa essere fonte di conoscenza? E di che tipo? Nella visione platonica l’immagine deforma la realtà (quindi allontana da essa) mentre secondo Aristotele l’immagine, intesa come imitazione, non è ingannevole e viene considerata uno strumento di conoscenza. Tra il rischio di chiedere troppo e il rischio di chiedere troppo poco all’immagine, una terza via viene suggerita nel saggio che Daniela Angelucci, docente di Estetica all’Università di Roma Tre, ha presentato sabato 6 aprile 2024 in occasione del quarto evento di Libri per Roma, iniziativa periodica promossa dall’Istituto di Cultura Evangelica e Documentazione.
Nel suo saggio dal titolo “Non tutto, né niente. La paradossale verità dell’immagine fotografica” (2022), Angelucci riprende un testo di George Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, 2005, all’interno del quale viene sviluppata una riflessione intorno allo statuto dell’immagine e al suo rapporto con la realtà, e lo fa a partire da quattro fotogrammi realizzati clandestinamente all’interno di Auschwitz; prove frammentarie raccolte malgrado le difficoltà relative alle condizioni di ripresa ma che danno la possibilità di accostarci a quella realtà per molti inimmaginabile che furono i campi di sterminio nazisti.
L’inquadratura è storta, le immagini non sono nitide ma, secondo l’autore, possono dirci qualcosa a patto di non dissolvere completamente la loro lacunosità. C’è un doppio regime da dover tenere in mente, fatto di verità e oscurità che mostra la paradossale natura dell’immagine; proprio l’oscurità e la frammentarietà di questi quattro frammenti mostrano le circostanze in cui sono stati fotografati e tutto ciò rimanda a quella parzialità dell’immagine che non può mostrare tutto, offrendo allo stesso tempo una visione più profonda: l’essere non tutta la realtà da la possibilità di accedere al reale reagendo ad esso, possibilità che una visione diretta non permetterebbe.
Citando il mito di Medusa contenuto nel testo di Kracauer, Theory of Film. The Redemption of physical reality, Didi-Huberman arriva alla conseguenza che se l’orrore reale è per noi fonte di impotenza, l’orrore riflesso nell’immagine può essere fonte di conoscenza. Medusa è il simbolo della realtà inimmaginabile di Auschwitz che Perseo guarda attraverso l’immagine riflessa nello scudo, come unico modo per poter guardare in faccia il male.
Il mito di Perseo viene ripreso anche dallo psicoanalista francese Jacques Lacan, richiamando Medusa come simbolo di un reale impenetrabile. Lacan parla della possibilità di un elemento nell’immagine, un foro, che possa aprire ad una sorta di passaggio al reale. L’immagine parziale può dirci qualcosa solo se la superficie viene forata per permettere di vedere dunque altro.
Angelucci riprende queste teorie nel suo saggio poiché spesso, nella nostra contemporaneità, si applicano alle immagini caratteri di pienezza esagerati. Il rischio di chiedere troppo all’immagine fotografica, cadendo in una eccessiva fiducia e in una possibile delusione, contrapposto al rischio di chiedere troppo poco all’immagine, cadendo in una radicale iconoclastia e rinunciando a ciò che potrebbe dirci, pur nella sua lacunosità.
Spesso ci troviamo ad essere spettatori delle immagini e, come soggetti guardanti, entriamo in un rapporto con l’immagine. Per evitare i due rischi che Angelucci riprende nel suo saggio, l’autrice invita a non essere pigri, ma a porsi davanti alle immagini in modo impegnato, inserendole nel loro contesto e capendole nel loro intento espressivo e/o di testimonianza. Il tentativo potrebbe portare ad un punto di contatto con la realtà, pur essendo non tutta la realtà.
Nella conversazione seguita alla presentazione, sono emersi alcuni spunti di lettura biblica delle immagini. Intanto, la falsa dicotomia Platone vs Aristotele, cioè l’opposizione tra immagine deformante e immagine come strumento di conoscenza. La Bibbia invita non a polarizzare, ma a collegare all’interno della storia della redenzione. L’immagine è creata da Dio e quindi è uno strumento di conoscenza (limitata) propria e del mondo; col peccato, tuttavia, l’immagine viene infranta e può diventare idolatrica, deviante e ingannatrice. Gesù Cristo è l’immagine di Dio che restaura l’immagine e permette di conoscere Dio e di riappropriarsi della vita. La Bibbia è quella lente attraverso cui noi siamo protetti dalle immagini false e incoraggiati ad esplorare il mondo nell’ottica di Dio. Ora vediamo come in uno specchio (1 Corinzi 13,12): in modo limitato, parziale, eppure se guidati dalla Parola e illuminati dallo Spirito, in modo vero.
Il prossimo appuntamento di Libri per Roma sarà il 15 giugno p. v.