Quando la fede diventa tossica

 
 

Nel linguaggio medico una tossina è una sostanza dannosa per un organismo vivente e che mette a repentaglio la sua esistenza. Si può dire che un organismo sano sia in grado di reggere la presenza di alcune sostanze tossiche in modo proporzionale al grado di salute goduto e per un tempo limitato. Se la presenza di tossine diventa preponderante o si prolunga oltremodo, può mettere rischio la sopravvivenza stessa dell’organismo o comportare delle menomazioni permanenti che ne riducono le prestazioni e la qualità della vita. Si può trasporre la metafora della tossina alla vita spirituale di credenti e di chiese? Certo che sì. E’ tanto vero quanto preoccupante osservare quanto malati siano i vissuti della fede. Il realismo biblico, unito all’antropomorfismo del suo insegnamento, fa sì che la Scrittura ricorra spesso a metafore legate alla malattia anche per parlare delle patologie della fede. La stato di malattia è spesso intrecciato alle dinamiche spirituali della vita.[1]

Non occorre essere dei catastrofisti arrabbiati per rendersene conto. Basta essere realisti con sé stessi e con gli altri. Basta avere uno sguardo sereno nei confronti della realtà delle chiese evangeliche, fuori e dentro i confini nazionali. La tossicità è palpabile. Quali sono gli agenti patogeni prevalenti? Quali sono le morbilità ricorrenti? E’ possibile individuarne almeno i ceppi principali ed imbastire una riflessione che non abbia l’ambizione di prescrivere facili terapie, ma almeno suggerire una iniziale valutazione anamnestica?

Il linguaggio delle tossicità legate alla fede evangelica è esplicitamente usato George Verwer (1939- ), fondatore della missione Operazione Mobilitazione, nel suo libro Confessions of a Toxic Perfectionist and God’s Antidote, Hyderabad, Good Shepherd 2020, pp. 108. In questo pamphlet c’è un riferimento alle “confessioni” di agostiniana memoria e l’indicazione di un elemento tossico collegato ad una tendenza perfezionista. Al di là del titolo, pare che il vocabolario della tossicità abbia fatto capolino nella riflessione evangelica popolare e che sia un descrittore pertinente di una percezione di un problema diffuso.

Curiosamente, Verwer dice che uno dei libri più influenti dopo la sua conversione a Cristo sia stato proprio Liberati dai sette peccati capitali di Billy Graham (p. 27). A parte questa annotazione a suo modo interessante, ciò che colpisce è il carattere di memoriale di questo libro di un ottuagenario che da sessant’anni è al centro di una fitta attività missionaria. Guardando indietro, guardandosi intorno e guardandosi dentro, Verwer intravede un rischio di “perfezionismo tossico”, un “ambiente tossico”, “fattori tossici”, “segni dell’infezione”, oltre a celebrare l’esistenza e l’efficacia dell’antidoto di Dio.

Non sono sicuro che il perfezionismo sia il fattore tossico prevalente nella spiritualità evangelica contemporanea e nemmeno tra i principali. Inoltre, la riflessione di Verwer, per quanto vivace e da ascoltare in quanto proveniente da un uomo ammirevole sotto molti aspetti, è aneddotica, vagamente qualunquista e non fa avanzare di molto l’analisi sulle tossicità croniche. E’ sufficiente aver colto in Verwer il ricorso al linguaggio della tossicità per descrivere una patologia strisciante ed estesa nel vissuto evangelico. Anche a chi guarda il mondo evangelico con sguardo generoso dal di dentro non sfugge che esso via una situazione di affetta da potenziali e reali rischi di tossicità. Quanto agli antidoti, Verwer suggerisce un vissuto bilanciato della fede cristiana che sia radicale ma non unilaterale. E’ questa la cura sufficiente?

[1] Per un primo inquadramento, cfr. Henri Blocher, “La malattia secondo la Bibbia”, Studi di teologia NS VII (1996/2) n. 16, pp. 101-116.