Quella mamma potevo essere io

 
 

#Qella mamma potevo essere io è l’hashtag che sta girando in questi giorni sui social ripreso da notiziari e quotidiani e che sta facendo parlare tanto aprendo una finestra, finora ignorata, sulle condizioni delle donne che partoriscono o sui casi di violenza ostetrica.

Migliaia di donne stanno postando sui social network esperienze e foto dei loro momenti post-parto per sostenere la madre che, allattando nel post-parto all’ospedale Pertini di Roma, ha accidentalmente soffocato il suo bambino, addormentandosi. Dire che quello di questa madre è un caso estremo è falso: tutte le donne che hanno partorito sanno che non è così. Mai come in questo caso il fronte delle donne che commentano o intervengono sembra essere compatto nel denunciare il bisogno di più sostegno e per dire che c’è da rivedere qualcosa nel modo in cui si parla di maternità. 

“Donna indagata per omicidio colposo”: non posso negare che ha suscitato in me un moto di rabbia e di tristezza. Dopo due parti in ospedali pubblici romani, non posso non sottoscrivere l’hashtag che sta girando! Le mie personali esperienze sono state positive, eppure non posso non ricordare quella stanchezza mai provata prima e il senso di smarrimento dovuto al dover prendersi cura di un neonato pieno di esigenze mentre i dolori sono lancinanti e a nessuno dei tuoi cari è permesso di strati vicino se non per qualche ora al giorno. 

Nella sanità pubblica negli ultimi decenni qualcosa è cambiato: il parto viene sempre meno medicalizzato e c’è un ritorno alle pratiche naturali e spontanee come il travaglio non medicalizzato, il parto naturale, l’allattamento al seno e la demolizione dei nidi a favore del contatto fisso del neonato con la madre. 

Mentre queste pratiche positive vengono sempre di più imposte, non c’è un contemporaneo sostegno alla madre che si ritrova ad affrontare le esperienze vissute dalle generazioni precedenti, ma in contesti in cui la rete famigliare e comunitaria viene a mancare. I padri non sono ammessi nelle strutture ospedaliere, se non per alcune ore. Nelle strutture pubbliche non ci sono figure di supporto adeguate. Se fino al momento dell’espulsione tutta l’attenzione è focalizzata sulla donna incinta, dal secondo esatto in cui si partorisce, al centro delle cure e dell’attenzione medica c’è il neonato lasciando la donna a dover gestire da sola una nuova fase estremamente delicata e complessa. I due anni di pandemia hanno ovviamente esasperato tutto questo e il caso di questa donna pone quesiti importanti sulla direzione che le strutture sanitarie vogliono intraprendere. 

Al netto della questione giudiziaria e delle scelte politiche sulla sanità conseguenti (speriamo), ci sono altre riflessioni che possono essere fatte. Come si può leggere nell’ottavo capitolo del libro di Emily Jensen e Laura Wifler, Risen Motherhood. Gospel Hope for everyday moments (2019), il Vangelo può avere qualcosa da dire anche sulle esperienze del parto. Le due autrici, infatti, riconoscono che sempre di più le aspettative che si hanno verso le madri sono altissime e le donne sentono su di loro la pressione di dover eccellere anche nella “prestazione” della gravidanza e del parto. 

Lavorare fino agli ultimi mesi di gravidanza, tenersi in forma, salvaguardare il feto, ottemperare a tutte le richieste sociali, partorire secondo le proprie aspettative riuscendo a gestire il dolore ma senza ricorrere ai medicinali, prendersi cura del bambino senza chiedere aiuto, allattare a richiesta ma anche tornare al lavoro il prima possibile… e tutta una lunga serie di imperativi che dovrebbero rendere la donna una buona madre perfetta e adeguata. Questa visione irrealistica è ovviamente fomentata anche dalle penetranti immagini social che rendono le esperienze meno brillanti giudicate come fallimentari. 

Sulla maternità, forse anche le chiese evangeliche hanno una visione incompleta. Mentre il senso di lode e ringraziamento per una nuova vita è sottolineato adeguatamente, troppo spesso si evita di parlare del fatto che, come le altre cose, anche la gravidanza, il parto e il post-parto, sono soggetti agli effetti della caduta e non corrispondono più all’originario piano creazionale secondo cui il generare figli era molto buono.

Se vogliamo predicare la verità, la chiesa ha il compito di riconoscere che la maternità è sì una benedizione, ma anche un delicatissimo momento di piccole o grandi complicazioni che ha bisogno di sostegno, incoraggiamento, aiuto e che averne una narrazione edulcorata e concentrata solo sugli aspetti positivi genera nelle neo-mamme l’illusione di una perfezione che non esiste. Sostenere le donne che partoriscono e che poi affrontano maternità più o meno complesse è un importante compito della chiesa. Seppur nel momento di massima gioia, le donne che partoriscono hanno bisogno di essere aiutate.