Stati Generali della Natalità a rischio infertilità

 
 

“Natalità” è tornata ad essere una parola al centro delle preoccupazioni pubbliche. Se ne è avuta la riprova con la terza edizione degli Stati Generali della Natalità (11-12 maggio) a Roma. Sono intervenuti politici di ogni parte, rappresentanti dell’associazionismo, esponenti di spicco del mondo dell’impresa e dello spettacolo, passando per il saluto del Presidente della Repubblica e culminando nell’intervento del Papa.

Promosso della Fondazione per la Natalità, nata da una costola del Forum delle Famiglie e guidata da Gigi de Palo, l’evento è di matrice fortemente cattolica eppure, nelle parole del presidente, la volontà espressa era di slegarlo dal tema dei valori, della cultura di riferimento e delle credenze. L’idea infatti è che, arrivati al punto in cui la denatalità rappresenta una vera e propria emergenza, il tema sia trasversale e vada affrontato con l’intervento della politica per costruire un sistema economico e sociale che sostenga e premi la natalità.

In effetti, i dati sull’inverno demografico italiano fanno sempre più rabbrividire ed è giusto mettere il dibattito al centro dell’attenzione. L’ultimo report dell’Istat sugli indicatori demografici mostra un trend in discesa costante con la natalità al minimo storico e dove i decessi per ogni 7 neonati sono 12.  Nell’immagine usata anche dagli Stati generali, in un anno in Italia una città come Bari è sparita. 320.921 italiani mancano all’appello nel saldo tra nati e morti.

Ancora più demoralizzante è apprendere che all’appello manca, più che altro, un numero consistente di donne in età fertile, e quindi di potenziali madri. Ciò è dovuto al fatto che l’attuale “trappola demografica” ha cominciato a generarsi negli anni ’70, quando le nascite sono calate ogni anno un po' di più fino a portare alla condizione attuale in cui non solo sono pochi i giovani ad aprirsi alla genitorialità. Questa generazione è già falciata numericamente dalla denatalità degli ultimi 40 anni.

Il tema effettivamente è anche politico ed è giusto che ci si batta per ottenere condizioni migliori che consentano ai giovani di aprirsi alla genitorialità. I dati mostrano che la precarietà del lavoro, i salari bassi, i costi delle case, la disparità tra uomini e donne nel mondo del lavoro, generano un’insicurezza diffusa che limita l’aumento delle nascite. Basta questo per spiegare l’inverno demografico?

Il presidente Meloni, nel suo intervento ha dichiarato che la denatalità non dipende solo da questioni materiali, ma soprattutto dalla capacità di una società di guardare al futuro e di orientarsi oltre il qui ed ora. Ha anche detto che il suo governo si augura di generare un ambiente normativo favorevole ad un cambio culturale rispetto alla percezione della genitorialità. Ha ribadito la sua contrarietà alla maternità surrogata e alle ideologie progressiste che sviliscono il ruolo della famiglia. Dimostrando uno scarso tasso di laicità, Meloni più volte si è rivolta “al Santo Padre” con reverenza e ossequiosità.

Subito dopo questo intervento, il Papa, che per definizione avrebbe dovuto dare risposte rispetto a come cambiare rotta e dove guardare per farlo, ha preso la parola per fare un discorso completamente svuotato di qualsiasi categoria biblica. Ha accennato alla “speranza” come parola chiave per pensare alla natalità; essa sarebbe un atteggiamento di vita che “si nutre dell’impegno per il bene da parte di ciascuno” e che va alimentata in quanto “azione sociale, intellettuale, artistica, politica”. Secondo Bergoglio “la nascita dei figli è l’indicatore principale per misurare la speranza di un popolo” e il nostro non he ha abbastanza. Poi ha affermato che “certo, esiste la Provvidenza, e milioni di famiglie lo testimoniano con la loro vita e le loro scelte, ma l’eroismo di tanti non può diventare una scusa per tutti”. Ha infine insistito sull’urgenza che la politica generi delle condizioni economiche e sociali favorevoli alla nascita di più bambini.

Insomma, agli Stati generali è avvenuto quello che in Italia succede sempre: la politica cerca l’approvazione della Chiesa cattolica ammiccando ai temi cari al cattolicesimo tradizionale mentre i vertici della Chiesa di Roma si esprimono come se fossero politici più che una portatori di un messaggio veramente innovatore: quello dell’evangelo.

Probabilmente il problema della natalità si colloca anche qui. La parte progressista del Paese in effetti non si preoccupa di incoraggiare la natalità, né di promuovere la cultura della famiglia. Il suo pensiero si potrebbe considerare riassunto nell’intervista molto discussa in questi giorni fatta a Michela Murgia da Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera. In essa, l’autrice, parlando della sua malattia terminale, ha ribadito, tra le altre cose, il suo modo di intendere la famiglia queer dove i sentimenti non sono vincolati da ruoli e dove i bambini non sono contemplati perché molesti. E’ chiaro che dietro alle teorie queer in fondo si cela uno sfrenato individualismo che non permette di aprirsi alla genitorialità e neanche a relazioni matrimoniali.

In teoria, il cattolicesimo si oppone a questa visione del mondo; eppure, volendo essere “cattolico”, si allarga per inglobare sempre più e per raccogliere consensi; finisce, così come nel discorso del Papa, nel non dare una vera direzione perché in fondo manca del messaggio del Vangelo. Decenni di governi guidati dalla cultura cattolica non hanno valorizzato la famiglia, non hanno costruito un welfare adeguato e lo stesso cattolicesimo non sembra avere temi da presentare per esporre la ricchezza del ruolo della famiglia e della natalità. Il Papa ha parlato di una speranza umanistica. Ma può essere richiamo generico il trampolino per il rilancio della natalità?

Come spesso accade negli eventi di rilievo nazionale, agli Stati Generali è mancata una voce evangelica. L’associazionismo evangelico non era rappresentato. Eppure, c’è un patrimonio culturale evangelico che andrebbe ascoltato: dalla “Dichiarazione di Danvers sull’uomo e la donna secondo la Bibbia” (1987)[1] all’importante documento delle Giornate teologiche dell’IFED (2004) su “La famiglia in discussione”,[2] fino a quello dell’Alleanza Evangelica Italiana “Quale famiglia per quale testimonianza evangelica?” (2016), sottoscritto da decine di leader evangelici. Questi e altri documenti toccano anche il tema della natalità. Oltre alle dimensioni politiche, sociali ed economiche, la natalità richiede una cultura che sia portatrice di vita e di vitalità. La nostra cultura sembra essere spenta, ripiegata, stanca, concentrata sull’individuo. Se non si ascolta una cultura ispirata dall’evangelo gli Stati Generali della Natalità, per tutte le loro buone intenzioni, rischiano di rimanere sterili.

[1] In P. Bolognesi (ed.), Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1996, Bologna EDB 1997, pp. 341-344.
[2] Il documento si trova nel fascicolo “Unioni civili”, Studi di teologia – Suppl. N. 12 (2014).