Albert Vanhoye (1923-2021), il biblista gesuita e le ingenuità sul metodo storico-critico
Quasi centenario, è da poco scomparso Albert Vahnoye (1923-2021), biblista francese tra i più rappresentativi dell’esegesi cattolica del secondo Novecento. Per molti anni professore e poi rettore del Pontificio Istituto Biblico, è stato segretario della Pontificia Commissione Biblica, poi creato cardinale da papa Benedetto XVI e sempre coinvolto in varie mansioni di alto livello con la sua competenza biblica. Studioso in particolare della lettera agli Ebrei, nella sua ampia bibliografia (in molte lingue) sono da ricordare i commentari alla lettera ai Galati (2000), all’epistola agli Ebrei (2010) ed uno studio sui carismi del NT (2011).
Di particolare interesse per i lettori evangelici è il ruolo svolto da Vanhoye nella redazione del testo della Pontificia Commissione Biblica “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” (1993), al tempo in cui lo studioso gesuita francese era segretario della commissione. In quel testo, il metodo storico-critico fu ufficialmente definito e difeso al più alto livello magisteriale della chiesa cattolica. Il testo va letto in parallelo alla “Dichiarazione di Chicago sull’ermeneutica biblica” (1982)[1], di dieci anni precedente, che sul versante evangelico affrontava gli stessi temi da un prospettiva teologica inerrantista.
“L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” è un volumetto di un centinaio di pagine che espone i metodi propri dell’esegesi cattolica. Sposa in toto il metodo storico-critico e sostiene che esso “non implica per sé alcun a priori”, quasi fosse asettico e non intriso di pre-comprensioni teologiche.
Davvero il metodo storico-critico non ha a priori?
In realtà il metodo storico-critico presuppone lo scollamento tra Parola di Dio e testo biblico, presuppone una visione molto blanda dell’ispirazione divina e presuppone la non affidabilità storica dei racconti biblici. Davvero si può fare esegesi ancora pensando alla storiella che il lettore si avvicina al testo senza un castello di pre-comprensioni in testa? Davvero si può credere che il metodo storico-critico che ha seminato sfiducia sull’attendibilità della Scrittura e sulla verità del suo messaggio sia uno strumento di per sé inerte? Questo è quanto Vanhoye credeva, dall’alto della sua “scienza” esegetica.
Il documento cattolico del 1993 è da mettere su uno sfondo ampio che lo precede e che lo segue. Vanhoye è stato figlio del “rinnovamento biblico” che ha attraversato la chiesa cattolica nel Novecento. Il “rinnovamento biblico” è uno dei movimenti più significativi che ha preceduto e seguito il Concilio Vaticano II (1962-1965). Dopo secoli di proibizione della circolazione della Bibbia nelle lingue vernacolari e di divieto di accesso ad essa, la Chiesa cattolica romana ha lavorato duramente per riconnettersi con le Scritture. L'enciclica Provvidentissum Deus (1893) di Leone XIII difendeva una visione elevata dell'ispirazione biblica, mentre l'enciclica Divino Afflante Spiritu (1943) di Pio XII accoglieva i metodi storico-critici nell'esegesi cattolica. Queste due affermazioni magistrali sono i binari all'interno delle quali si può trovare l'attuale approccio cattolico romano alla Bibbia. Un tradizionale apprezzamento della Bibbia come libro ispirato, da un lato, e una sua lettura critica che mette in discussione la chiarezza e la finalità della Scrittura, dall'altro, sono i due poli che aprono la porta all'intervento del Magistero per l'interpretazione della Scrittura.
La Costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II (1965) è la più autorevole affermazione sulla Bibbia che unisce le due accentuazioni nel quadro di una dialettica triangolare tra Tradizione, Scrittura e Magistero. Una sintesi della Dei Verbum è stata offerta da Papa Benedetto XVI nella sua lettera Verbum Domini (2010) in cui scrive che la Parola di Dio “precede e supera la sacra Scrittura, tuttavia la Scrittura, in quanto ispirata da Dio, contiene la parola divina” (17). Qui troviamo il classico riferimento all'ispirazione, ma anche l'esistenza precedente della Tradizione che avvolge la Bibbia e parla attraverso il Magistero della Chiesa. Secondo l'insegnamento cattolico la Bibbia "contiene" solo la Parola e questa differenza tra Scrittura e Parola consente sia letture critiche della Bibbia sia la necessità di un'autorità umana di discernere cosa contiene e cosa no.
Non è questo un a priori?
Dopo il documento redatto con la regia di Vanhoye, la Pontificia Commissione Biblica ne ha scritto un altro nel 2014. Il titolo cattura bene il tema discusso: “Ispirazione e verità della Sacra Scrittura”. Questo testo di 250 pagine è sostanzialmente un'elaborazione di quanto sostenuto dalla Dei Verbum per quanto riguarda la portata dell'inerranza biblica, cioè che la Bibbia “insegna senza errore quella verità che Dio ha voluto mettere nelle sacre scritture per il bene del nostro salvezza” (11). Il documento tenta di riaffermare e ampliare quanto evidenziato dalla Dei Verbum e cioè che la verità della Bibbia è affermata ma è collegata al “progetto di salvezza” (3), al “piano salvifico” (4), e alla “nostra salvezza” (63). Per il resto, “nella Bibbia incontriamo contraddizioni, imprecisioni storiche, resoconti improbabili, e nell'AT ci sono precetti e comandi che sono in contrasto con l'insegnamento di Gesù” (104). Più specificamente, le narrazioni abramitiche sono considerate più interpretazioni che fatti storici (107), l'attraversamento del Mar Rosso è più interessato ad attualizzare l'Esodo che a riportare i suoi eventi originali (108), la maggior parte del libro di Giosuè ha scarso valore storico ( 127) e la storia di Giona è un racconto immaginario (110). Nel NT, il riferimento al terremoto nei racconti della passione è un “motivo letterario” più che un resoconto storico (120). Più in generale, i Vangeli hanno un valore normativo nell'affermare l'identità di Gesù ma i loro riferimenti storici hanno una “funzione subordinata” (123): vale a dire, la teologia dei Vangeli è valida, ma la loro attendibilità storica è meno importante. Non viene spiegato come i due aspetti possano essere nettamente distinti. Alla fine la verità della Bibbia è “ristretta” a ciò che dice sulla salvezza (105).
Questi spunti storico-critici non sono a priori?
E il ruolo della Chiesa in questa materia? Poiché la verità della Bibbia non è plenaria, è la Chiesa che media l'accoglienza e l'annuncio della verità della Sacra Scrittura (149). È la Chiesa (la Chiesa cattolica romana) che seleziona e limita quella che è la verità della Scrittura. In definitiva, è la Chiesa che definisce la verità della Scrittura e la governa.
Questo intreccio tra Chiesa e rivelazione non è un a priori?
Come si fa a dire che il metodo storico-critico non è basato su a priori all’insegna dello scetticismo? Nella sua opera esegetica, Vanhoye ha dato voce alla miscela cattolica romana di visioni tradizionali e critiche della Bibbia che, alla fine, esalta il ruolo della Chiesa come interprete supremo della Scrittura. Pur gioendo per alcuni frutti del “rinnovamento biblico” che sta avvenendo nel cattolicesimo romano, soprattutto per quanto riguarda l'incoraggiamento a tutti a leggere le Scritture, in nessun modo Roma si è avvicinata alla Sola Scriptura, cioè all'obbedienza alla Parola di Dio scritta autoattestante che testimonia veramente la persona e l'opera di Gesù Cristo. Il cattolicesimo romano ha sfumato la sua posizione e ha allentato gli spigoli della sua opposizione, ma mantiene ancora la preminenza della Chiesa sulla Bibbia, ora anche sostenuta dal metodo storico-critico. Pur nella sua alta scienza esegetica, Vanhoye è rimasto dentro il paradigma cattolico romano: molto ingenuo sul metodo storico-critico e difensore della supremazia della chiesa sulla Scrittura.
[1] In Dichiarazioni evangeliche. Il movimento evangelicale 1966-1997, a cura di P. Bolognesi, Bologna, EDB 1997, pp. 177-182. Sulle dichiarazioni di Chicago sulla Bibbia, rimando al mio articolo “Una Bibbia, due Testamenti, molte ermeneutiche: e l’autorità della Scrittura? Una prospettiva evangelical”, Protestantesimo 59 (2004) pp. 147-154.