All you can eat? L’illusione di una vita senza limiti e la responsabilità cristiana

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Il 2021 si apre nel contesto di una grande attenzione al cambio di paradigma sollecitato dalla rivoluzione digitale. Lo scenario è quello di una società che ha nella capacità computazionale e nell’intelligenza artificiale, nell’innovazione continua e nei blockchain, i driver principali dello sviluppo. Viviamo in un ambito dove sono stati costruiti molti sistemi artificiali e innumerevoli device, al punto che spesso definiamo il contesto in cui viviamo come “mondo tecnologico”. Anche se è frutto di un certo riduzionismo - nella vita non c’è, infatti, solo la tecnologia - con “mondo tecnologico” indichiamo anche l’impatto enorme che i prodotti tecnologici hanno nella vita quotidiana. E non è esagerato pensare che capire la natura della tecnologia sia oggi diventato una precondizione necessaria alla comprensione della società e della cultura. 

I vantaggi della tecnologia sono ovvi: grazie alla tecnologia viviamo in modo migliore, siamo più ricchi, godiamo di buona salute, abbiamo più informazioni, siamo meglio connessi con gli altri. Certo, su scala globale, si tratta di benefici distribuiti in modo non omogeneo; ma l’aspettativa è che mercato e politica facciano in modo da colmare il technological divide: il gap tra nord e sud del mondo. 

Quello che manca è però una riflessione sui limiti della tecnologia. Anzi, nell’assorbire le promesse utopiche di un certo tecnoentusiasmo, ne abbiamo negli anni condiviso la retorica. Pensiamo, ad esempio, all’uso dell’aggettivo “illimitato” associato ad una certa tecnologia o servizio: internet illimitato, minuti illimitati, dati illimitati, cibo illimitato (all-you-can-eat) … Un mondo senza limiti viene presentato come mondo ideale che solo la tecnologia può realizzare. È la nuova utopia, un affascinante nessun-luogo (au topos) che renderà tutto e tutti migliori. 

Tutto ciò non è libero da condizionamenti e, a dire il vero, ci sono alcuni importanti presupposti in questo approccio: vivere più a lungo è meglio, avere maggiori informazioni è qualcosa di positivo, ecc. Ma il sistema inizia a presentare delle crepe importanti e, per dirla con Harvey Mackay “la tecnologia dovrebbe migliorare la tua vita, non diventare la tua vita”. Cioè, i presupposti dovrebbero essere “integrati” da un orizzonte di senso più ampio, diverso: come posso utilizzare gli anni in più che ho da vivere per uno scopo? Che ci faccio dell’overload informativo?  

Ci serve dunque un approccio alternativo, che ci aiuti a riflettere attentamente sulla società e a comprendere la struttura del mondo che abitiamo, nella consapevolezza che la complessità della creazione e la multiforme ricchezza della realtà sono segni dell’onnipotenza e della creatività di Dio. Solo la visione cristiana, il suo realismo nell’individuare e affrontare il peccato e il male, può infatti liberarci da una certa degenerazione distopica, dalle pericolose ambizioni della tecnologia.  

Il peccato, infatti, ha un impatto non solo nel “cuore” dell’uomo, ma anche sulla tecnologia. Immaginare, progettare e produrre tecnologia non sono, infatti, attività neutrali. Riflettono sempre - sia che ciò avvenga consapevolmente o meno - una particolare visione del mondo, una prospettiva sul tipo di persone che vogliamo essere e sulla società che immaginiamo e desideriamo. 

Ecco perché l’approccio cristiano è davvero trasformativo: non si limita a registrare le diverse considerazioni tecniche ed economiche, ma cerca di orientare lo sviluppo sociale e tecnologico in modo da tale che si rispettino i principi strutturali della realtà permettendo la cura e il fiorire umano.