Art(e)vangelo (IV). Il Giudizio Universale di Michelangelo

 
 

San Miniato, settembre 1533, papa Clemente VII convoca Michelangelo per comunicargli dell’intenzione di impegnarlo nella pittura del Giudizio Universale sulla parete dell’altare della cappella Sistina. Le pitture dei maestri precedenti potevano anche essere sacrificate in quanto era forte l’urgenza per la creazione di un’opera che cogliesse e comunicasse l’angoscia di quei tempi.

A quella data, Michelangelo aveva 60 anni, il suo fisico non si era ancora ripreso dall’impresa della volta della cappella che aveva affrescato vent’anni prima; si ritrova a lavorare nello stesso luogo ma in un clima ben diverso: la chiesa di Roma era impegnata a fronteggiare la riforma protestante e non tollerava alcuna forma di opposizione interna ma, molto probabilmente, quasi nessuno sapeva che Michelangelo nel frattempo si era avvicinato a quei circoli degli spirituali che condividevano e abbracciavano le idee protestanti. In effetti, con il suo Giudizio Universale, l’artista si allontana dall’iconografia tradizionale e, attraverso la sua carica innovativa, sembra aver voluto provocare la chiesa proprio nel suo cuore tanto da far si che il giorno dell’inaugurazione qualcuno gridasse allo scandalo. 

L’affresco è stato oggetto di un tentativo di critica d’arte nell’ambito di Art(e)vangelo, un modulo promosso dall’Istituto di Cultura Evangelica e Documentazione. Durante il quarto incontro, siamo entrati nella Cappella Sistina costruita sotto il pontificato di papa Sisto IV intorno al 1477-81; uno spazio piuttosto esteso destinato ancora oggi ad ospitare importanti celebrazioni liturgiche, oltre alle riunioni del conclave in cui i cardinali scelgono il nuovo papa. Intorno al 1481-82 la cappella fu completamente affrescata secondo uno schema ben preciso ma dal 1533 al 36 le pitture della parete d’altare sono state demolite per far spazio al giudizio michelangiolesco, scoperto al pubblico il 31 ottobre 1541 creando stupore e sconcerto.

La pittura, posta proprio davanti agli occhi del celebrante che, a questa data, guardava verso l’altare, porta con sé una grande modernità: in esso non troviamo alcun elemento architettonico, nessuna intelaiatura volta a scandire le varie scene, è tutto un grande movimento di figure umane nude. Michelangelo scardina tutti quei principi rinascimentali oltre ad alterare profondamente quell’iconografia tradizionale che di norma prevedeva una rappresentazione gerarchica dei beati e dei dannati. Contro la tradizione, notiamo anche che gli angeli sono privi di ali e i santi sono privi di aureole, confondendosi così con tutti gli altri. 

Circa 400 figure che l’artista sistema intorno al centrale Cristo giudice il quale, con la sua gestualità, sembra mettere in movimento le masse di persone che lo circondano. Il braccio severo del Cristo sembra avere dei punti di contatto con le prediche di Bernardino Ochino che parla del giorno del giudizio come quel giorno in cui Cristo è adirato. Attraverso i carteggi arrivati fino a noi, abbiamo modo di pensare che la figura di Ochino fu molto influente nel percorso spirituale dell’artista.  L’angoscia di questo giorno sembra essere un sentimento che investe non solo i dannati ma anche i beati, le creature celesti, Maria, gli angeli; tutti sembrano partecipare al tormento. 

Se pensiamo che in quel momento la chiesa di Roma voleva comunicare solo certezze, possiamo capire che il giudizio michelangiolesco risultava piuttosto scomodo; l’artista si è preso grandi licenze nell’impaginare il grande affresco. A dar fastidio non erano tanto i nudi o la presenza di personaggi che non le Scritture non c’entrano nulla, come Caronte e Minosse che Michelangelo ha ripreso in omaggio alla commedia dantesca offrendoci anche un simpatico, se così vogliamo guardarlo, aneddoto che vede il volto di un cerimoniere pontificio che durante i lavori biasimò l’opera di fronte a Paolo III e al pittore il quale, per vendicarsi, lo ritrae come Minosse, in mezzo ai diavoli dell’inferno. 

In molti pensarono che Michelangelo avesse esagerato, non tanto per il contenuto, piuttosto per il luogo in cui si trova l’affresco, nel cuore della chiesa di Roma. E finché furono in vita Paolo III e il suo successore Giulio III, le critiche non sortirono effetti, ma sotto Carafa, il grande inquisitore, Michelangelo rischiò di finire sotto processo per eresia. Appena fu svelato il Giudizio, Carafa lo definì osceno e immorale, le fonti ci dicono che avrebbe chiesto all’artista di “acconciarlo”. “Dite al papa che questa è piccola faccenda e che facilmente si può acconciare; che egli acconci il mondo, che le pitture si acconciano presto”. Questa la risposta del pittore. 

Chiuso il Concilio di Treno, nel 1564, anno di morte del Buonarroti, un documento conciliare decretò di intervenire sull’affresco. Il giudizio subisce la censura e fu affidato ad un pittore della scuola michelangiolesca il compito di nascondere le oscenità del Giudizio, quindi di coprire le nudità dei santi e dei dannati con le cosiddette braghe. Ma se le figure dei nudi si sono potute acconciare con dei semplici panneggi, tutto il resto non si può acconciare: la passione violenta che sembra agitare tutti nell’ultimo giorno è forte. I patriarchi, i beati, le vergini, se prima nelle raffigurazioni del giudizio sono raffigurate in modo estatico, adesso nel giudizio michelangiolesco guardano spaventati al Cristo giudice. Tutti sono spaventati, il destino è incerto. 

Immaginiamo: nelle intenzioni dei committenti l’opera doveva avere un valore rassicurante in un tempo incerto come quello che stava vivendo e invece l’artista che fa? Proprio nel luogo più autorevole della chiesa di Roma, si rifiuta di rassicurare. 

L’opera sembra riflettere la sua visione del mondo; è proprio negli anni di concepimento di quest’opera che Michelangelo vive un profondo travaglio spirituale attraverso una ricerca di Dio e della sua grazia che lo porta a vivere un sentimento di angoscia profondo che sembra essere perfettamente riportato sulla parete della Sistina. 

In questo Giudizio Universale sembrano vedersi rispecchiate le paure e le inquietudini che quel tempo stava producendo davanti al destino di quella cristianità; esso mostra una visione personale di questo giorno propria dell’artista e profondamente influenzata dal suo travaglio interiore. È un giudizio che sembra non mostrare speranza quanto piuttosto smarrimento, confusione, interrogativi.

La Parola di Dio parla del giorno del giudizio come un giorno d’ira, come il giusto atteggiamento che un Dio giusto deve avere verso la ribellione del peccato; un giorno in cui la giustizia di Dio sarà rivelata e tutti saranno giudicati. La Bibbia afferma anche che chi ha creduto in Cristo ha una certezza: che Gesù, morendo sulla croce, ha preso il loro posto nel giudizio e che, grazie a Lui, Dio darà loro dei nuovi corpi e li introdurrà nei nuovi cieli e nella nuova terra per l’eternità. Questa certezza manca nel Giudizio di Michelangelo. 

Il prossimo appuntamento del modulo Art(e)vangelo sarà il 15 maggio p.v. su “Esperimenti di critica d’arte: il colonnato del Bernini e la Nuvola di Fuksas”.

Della stessa serie:
“Art(e)vangelo (I). Una bussola biblica per l’arte” (26/1/2024)
“Art(e)vangelo (II). L’arte e la Bibbia in un libro di Francis Schaeffer” (23/2/2024)
“Art(e)vangelo (III). Arte e cristianesimo nella storia” (20/3/2024)