Che chiesa vogliamo essere (V). Chiesa pit-stop per favorire percorsi in avanti
Nelle gare di Formula 1, la macchina che sta correndo la gara arriva nel box e la “pit crew” (una squadra che può raggiungere le venti persone) effettua il rifornimento e cambia le gomme in meno che non si dica, consentendo al pilota di correre ancora più veloce il resto della corsa fino al traguardo. Questo è quello che viene chiamato pit-stop, un punto di ristoro/rilancio che consente una ricarica di energie e un cambio dei pezzi usurati dalla gara.
Una chiesa con una visione del discepolato sana saprà essere anche una chiesa pit-stop. Se è vero, infatti, che le chiese devono avere una vita ordinata e stabile con l’obiettivo primario della crescita a lungo termine di ogni suo membro, è anche vero che si devono rendere conto anche delle necessità di chi si ferma nella chiesa per un tempo breve, per motivi di studio o di lavoro, per poi proseguire il cammino altrove.
E così, tra le metafore presenti sul fascicolo “Discepoli che discepolano”, Studi di teologia (2020) N. 64, dove sono state individuate le caratteristiche principali di chiese sane del passato e del presente che hanno avuto modelli di discepolato impattanti, si trova questa metafora della chiesa pit-stop. Le altre metafore evocate e sulle quali la chiesa Breccia di Roma Prati recentemente ha incentrato una serie di predicazioni dal titolo “Che chiesa vogliamo essere?”, sono torrente, dressée (formata/organizzata), alveare, catalizzatore, vivaio, essenza, e radice.
Ad essere descritta come chiesa pit-stop è la chiesa St. Helen’s, nel centro di Londra, guidata per molti anni dal pastore Dick Lucas. Inserita nel cuore della City, cioè un punto nevralgico della vita economica di Londra dove migliaia di persone ogni giorno si riversano per lavorare begli uffici finanziari, questa chiesa è stata capace di offrire un punto di ristoro per lavoratori, impiegati, broker, bancari, ecc. che tra i ritmi frenetici della città hanno potuto trovare un momento di sosta e di rifocillamento nella Parola di Dio. Pur non abitando stabilmente lì e pur avendo dei ritmi aticipi rispetto alla vita ordinaria della chiesa, St. Helen’s ha risposto ad un bisogno specifico.
Pensando ai tempi e ai ritmi di vita che cambiano, non è superfluo chiedersi in che modo anche le nostre chiese possano adeguarsi a ritmi della vita contemporanea, a stagioni che cambiano e a percorsi di crescita per i suoi membri/frequentatori. Non tutte le chiese vivono in città caratterizzate da movimenti demografici importanti; eppure, ci sono riflessioni trasportabili in ogni contesto.
Non è infatti raro, al giorno d’oggi, che per motivi di lavoro o di studio si cambi città più volte, si viaggi, ci si sposti. Anche per famiglie intere muoversi più volte nel corso della vita per i più svariati motivi non è inconsueto; così come non è raro che persone provenienti da altri Paesi possano per dover passare dei periodi più o meno brevi nelle nostre città/paesi. Possono le chiese ignorare queste tendenze della contemporaneità ed adagiarsi su modelli che presuppongono che si resti nella chiesa di cui si è membri per sempre e dove gli ospiti vengono semplicemente accolti come tali senza preoccuparsi di loro?
La terza lettera di Giovanni invita ad accogliere i fratelli che vengono da altre parti per collaborare insieme in favore della verità (v.8). In realtà, le epistole del Nuovo Testamento sono piene di esempi di accoglienza di fratelli in viaggio e di capacità di collaborare insieme per la causa del vangelo. È un modello che quindi esiste sin dalle origini e che le chiese contemporanee devono rielaborare e promuovere considerando i contesti attuali in cui operano. Questo implica che una chiesa pit-stop, o punto di ristoro, possa avere una visione di promozione del discepolato anche per coloro che frequentano per periodi brevi, non solo per i residenti stabili. Non si tratta di riformulare ogni volta programmi ad-personam e di re-inventare la chiesa ogni mese, ma di avere un modello capace di trasferire il DNA di una chiesa sana a chi la frequenta per brevi o lunghi periodi.
Una chiesa "pit-stop" è capace di accogliere tali collaboratori e aiutarli ad orientarsi bene e collocarsi bene nella vita della chiesa nel contesto, nella cultura, nella città in cui si trovano, anche se è solo per una stagione della vita. Come una “pit-crew” bisogna riconoscere di appartenere ad una stessa squadra in cui poter essere di benedizione ed arricchimento reciprocamente. Grandi benefici possono essere trasmessi a chi vive una stagione breve in una chiesa che è intenzionale nell’accogliere anche se per breve tempo, nel trasmettere una visione confessante e discepolante della vita cristiana, nel saper coinvolgere in modo appropriato chi starà uno o due anni soltanto.
Una chiesa che si rifiuta di fare questo esercizio concentrandosi solo sulle persone “fisse” sta mettendo in dubbio la sovranità di Dio e i suoi piani, mostrando inoltre una certa misura di immaturità nel comprendere sia la storia della chiesa, sia il discepolato nel suo insieme. Certamente, ci sono sfide da affrontare: non tutte le persone in transito vogliono essere rifocillate (alcuni non vogliono proprio esporsi), altri vengono con l’intenzione di tenere il contatto con la chiesa a livello superficiale ed episodico, quasi “utilitaristico”. Come sempre, le sfide reali non devono inibire le ambizioni ad essere una chiesa che sa modulare la confessionalità verso persone che si trovano in stadi diversi di cammino cristiano. La domanda è: come può la vita della chiesa essere d’incoraggiamento a fare un passo avanti nel cammino della maturità della persona?
Pensando alle nostre chiese, chiediamoci: come consideriamo gli eventuali ospiti? Con che spirito li accogliamo, se li riteniamo “non un nostro problema” fino a che non diventino stanziali? Non è forse un modo limitato di pensare alla crescita del popolo di Dio nel suo insieme?