Decifrare le “conversioni”, partendo da quella di Silvia Romano

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La “conversione” di Silvia Romano all’Islam ha suscitato una valanga di reazioni e commenti. Ha fatto una certa impressione vedere questa giovane ragazza, dopo essere stata per 18 mesi ostaggio di gruppi terroristici islamici, scendere dalla scaletta dell’aereo che la riportava a casa vestita come una musulmana del Corno d’Africa. Non sappiamo molti particolari e sarà sicuramente necessario aspettare per farsi un’idea. A caldo ci sono due ordini di considerazioni che si possono fare in modo più o meno sensato.

1. La cultura italiana, sia quella religiosa sia quella laica, fa fatica a “processare” (cioè ad elaborare culturalmente) la conversione religiosa. Non esistono gli enzimi culturali per capire cosa significhi convertirsi ad un’altra religione. Per il cattolicesimo è una questione dottrinale associata al battesimo degli infanti. Infatti, nelle cultura a maggioranza cattolica, si diventa tali per tradizione, per appartenenza ad una cultura religiosa, per immissione in un flusso che precede e che circonda, senza necessariamente investigarlo e decidere tra alternative. Uno non si rende conto di essere cattolico e non sceglie di essere tale, ma si trova ad essere identificato col cattolicesimo per una serie di ragioni famigliari, storiche e sociali. Una ragazza italiana che diventi islamica cozza contro questa assenza di grammatica della conversione nella cultura religiosa.

Per parte laica, le conversioni religiose sono sempre avvolte in un’aura di sospetto e scetticismo. La cultura secolarizzata ancora impregnata di ideologia scientista e razionalista considera la religione uno stadio primitivo dell’umanità preda del mito. Quindi fatica a comprendere come persone scolarizzate, che viaggiano e navigano in internet, possano farsi abbindolare dalla religione. La cultura laica “debole” e relativista non capisce come una persona possa entrare in una narrazione religiosa al punto da cambiare vita in modo radicale, rifondando la sua esistenza su un credo religioso. Al massimo, la religione è vista come esperienza vagamente emotiva e dal sapore estetizzante, ma non forte abbastanza da riorientare la vita, stabilendo un “prima” e un “dopo”. 

Dunque, di fronte ad un annuncio di una “conversione” (a qualunque fede o credo), la reazione italiana è di imbarazzo sospettoso. Non ci sono i codici culturali per provare a capire cosa significhi vivere una conversione. 

La cultura italiana, sia quella religiosa sia quella laica, fa fatica a “processare” (cioè ad elaborare culturalmente) la conversione religiosa. Non esistono gli enzimi culturali per capire cosa significhi convertirsi ad un’altra religione.

2. Esiste un’ampia documentazione sulle conversioni religiose in “strutture obbliganti”, siano esse carceri, prigioni o luoghi di detenzione e sulla loro effettiva durata nel tempo. Ogni pastore evangelico o persona impegnata nella testimonianza ha avuto esperienza di “conversioni” di detenuti che, mentre si trovavano in cella, hanno manifestato un certo interesse per l’evangelo, salvo poi dileguarsi una volta riacquisita la libertà. In qualche modo, in una “struttura obbligante” si innesca un meccanismo complesso di volontà di sopravvivenza che si traduce in un’adesione ad un credo visto come “via di redenzione”, speranza di futuro. Fuori dalla “struttura obbligante”, questa conversione spesso evapora. 

Nel caso della “conversione” di Silvia Romano, è importante considerare il contesto doppiamente “obbligante”. Per 18 mesi è stata detenuta, senza contatti, priva di libertà di contatto. In più, la coercizione cui è stata sottoposta ha anche avuto un fortissimo aspetto psicologico: tutto intorno a lei premeva per farla diventare musulmana. La “conversione” può essere figlia di questa doppia pressione obbligante e maturata da un istinto di sopravvivenza in vista di una speranza di futuro. E’ accaduto così a Silvia? Lei ha ceduto all’Islam sotto pressione e per sopravvivere? Il tempo lo dirà. Bisognerà aspettare e vedere i “frutti”. 

La fede evangelica ha al proprio cuore la necessità della “conversione”. Uno non nasce cristiano, ma lo diventa per conversione a Gesù Cristo. Nel suo celebre studio Evangelicalism in Modern Britain: A History from the 1730s to the 1930s, London, Unwin Hyman 1989, lo studioso britannico David Bebbington ha documentato come il “conversionismo” sia uno dei quattro elementi qualificanti della fede evangelica (insieme al bibliocentrismo, al crucicentrismo e all’attivismo). Anche per questa ragione, mentre rivendichiamo la libertà di conversione e la necessità di rispettare i cammini di conversione proprie e altrui, dobbiamo essere consapevoli che non tutte le conversioni sono libere e volontarie. Sotto e dietro e dentro le conversioni si possono nascondere un’infinità di motivi che nulla o poco hanno a che fare con il credo religioso. In ogni caso, l’albero dà i suoi frutti e il frutto, prima o poi, rivelerà la natura dell’albero.