“E voi, chi dite che io sia?” Confessare la fede nei primi secoli del cristianesimo
Il modulo di teologia storica “Una così grande schiera di testimoni”, iniziato questo gennaio dalle chiese Breccia di Roma e Breccia di Roma San Paolo, è giunto alla sua quinta tappa. Se negli scorsi incontri ci siamo soffermati sui soggetti che hanno difeso e propugnato il messaggio del Vangelo (apologisti, Tertulliano e Atanasio), questa volta ci siamo concentrati sull’oggetto della fede biblica confessato e riaffermato dalla chiesa con i credi di Nicea e Calcedonia.
È la Bibbia stessa che ci insegna a confessare la fede. Credere personalmente e intimamente nella persona e nell’opera di Gesù Cristo implica necessariamente una confessione verbale e pubblica (Romani 10,9). Sintetizzare il messaggio del Vangelo sottoforma di credi ci aiuta innanzitutto a definire il contenuto di ciò che si crede, così da evitare ogni sorta di vaghezza, sentimentalismo e personalismo (p. es. Paolo scrivendo a Timoteo, parla di un “deposito” da custodire, cioè l’insieme dei cardini del Vangelo. Cfr. 1 Timoteo 6,20). In secondo luogo, dà oggettività e concretezza alla propria fede, facendone un preciso e comune punto di riferimento in cui tutti i veri credenti si identificano (Romani 15,6). Di conseguenza, il deposito della fede, definito e condiviso dai credenti, è facilmente trasmettibile rendendolo un mezzo efficace di comunicazione e riconoscimento (Giuda 3).
A partire dall’età apostolica, i credenti cercarono di salvaguardare e definire la verità biblica del monoteismo e della pluralità delle persone della Trinità. L’argomento che animò il terzo e quarto secolori guardò soprattutto il rapporto tra il Padre e il Figlio. Gesù Cristo si era presentato come Figlio di Dio e i discepoli, insieme ad altre persone, lo avevano riconosciuto in quanto tale. Dalle sue parole era evidente che c’era un’inscindibile relazione tra lui e Dio, al quale si rivolgeva chiamandolo Padre. Chi era dunque costui? Che rapporto aveva con il Padre? Che relazione intercorreva tra Padre e Figlio? La questione era di massima importanza perché andava ad intaccare la redenzione. Secondo la dottrina biblica, il Figlio si era incarnato per mezzo dello Spirito Santo al fine di permettere agli uomini di ristabilire con il Padre la relazione che era stata totalmente distrutta dal peccato. Per rendere possibile tale risvolto era necessario che Gesù Cristo fosse totalmente Dio e totalmente uomo per essere il perfetto sostituto in grado di espiare il peccato dell’umanità e ristabilire il rapporto tra Dio e l’uomo. Riprendendo le parole di Atanasio “Dio divenne uomo, affinché noi diventassimo Dio” (cioè partecipi della natura divina per mezzo dello Spirito Santo. Cfr. 2 Pietro 1,4)
Tra le dottrine addotte sul rapporto tra il Padre e il Figlio, l’insegnamento di Ario suscitò molti aderenti. Il monaco berbero negava la piena deità di Cristo e lo subordinava al Padre ritenendolo una creatura divina a lui inferiore. Tale visione era evidentemente viziata dalla filosofia neoplatonica che insegnava l’inconoscibilità di Dio e la sua conoscibilità attraverso l’Intelletto, una sua emanazione a lui inferiore. L’eresia ariana annullava la validità e l’efficacia dell’espiazione dato che il Figlio era considerato, seppur in qualche modo divino, pur sempre una creatura succube di peccato e imperfezione, e quindi incapace di essere il perfetto mediatore tra Dio e l’uomo. Le guide della chiesa del tempo, responsabili della salvaguardia del deposito della fede apostolica, si riunirono a Nicea nel 325 per definire il rapporto tra il Padre e il Figlio all’interno della Trinità. La maggior parte dei vescovi presenti condannò Ario e la sua eresia, e sottoscrisse il credo di Nicea. Quest’ultimo, prendendo a prestito un concetto filosofico, afferma che il Figlio è consustanziale al Padre (homoousioun to Patri). Entrambe le persone della Trinità partecipano della stessa sostanza e quindi sono entrambe ontologicamente Dio. Il credo recita infatti che il Figlio è “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre”.
Successivamente, sorsero questioni incentrate sull’incarnazione del Figlio. Qual era la relazione tra la natura divina e la natura umana in Gesù Cristo? Anche questo argomento era di estrema importanza. Riprendendo le parole di Atanasio: “ciò che non è assunto, non è guarito”. Se Gesù non fosse stato interamente uomo e interamente Dio, la salvezza non avrebbe avuto né valore effettivo né un risvolto pratico. Apollinare insegnò che il Figlio aveva sostituito l’anima razionale dell’uomo Gesù, ma così facendo negava la sua piena umanità. Nestorio, volendo evidenziare la piena umanità di Gesù, radicalizzava la separazione tra la natura umana e divina facendo venire meno l’unità delle due nature. Infine, Eutiche, volendo evidenziare la deità di Gesù, affermava che la natura divina aveva inglobato la natura umana, annullando così la distinzione tra le due nature. Venne indetto un ulteriore concilio a Calcedonia (451) e sottoscritto l’omonimo credo, il quale non ebbe la presunzione di spiegare geneticamente l’unione delle due nature, un fatto umanamente incomprensibile, ma di definire e riaffermare, nei limiti del linguaggio umano, che le due nature erano da riconoscersi unite nella persona di Gesù Cristo “senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili”.
Detto questo, che insegnamenti può trarne la chiesa odierna? Innanzitutto, bisogna sempre prestare attenzione con quali lenti si legge e studia la Parola di Dio. Ario utilizzò le lenti della filosofia del tempo, vana come la corsa dietro al vento, anziché adoperare la stessa Bibbia come principio di interpretazione. Anche noi incorriamo giornalmente nel rischio di leggere e applicare la Bibbia con il principio del Sola Cultura anziché del Sola Scriptura. La Parola di Dio non passa, la cultura cambia repentinamente. Ciò nonostante, riconoscendo che tutto soggiace alla sovranità di Dio, il quale ha redento l’umanità, e con essa la cultura, come le guide ecclesiali che si riunirono per definire i credi, anche noi possiamo “usufruire” di termini filosofici e culturali per meglio spiegare la verità biblica e dimostrare, ancora una volta, la sua superiorità rispetto alle altre filosofie.
Articoli precedenti:
“Per entrare nel mondo dei Padri bisogna avere un mazzo di chiavi” (20/1/2022)
“Difensivi e offensivi. L’apologetica dei Padri della chiesa” (23/2/2022)
“Tertulliano, il padre della dottrina della Trinità” (23/3/2022)
“Atanasio e l’incarnazione del verbo” (20/4/2022)