Girolamo e Teodoro di Beza. Uomini diversi accomunati dallo stesso Dio

 
 

Riprendendo la celebre domanda di Tertulliano, ci si potrebbe chiedere: “Che cosa c’è in comune tra Girolamo e Teodoro di Beza?”. In effetti, uno visse nell’Impero romano a cavallo tra il IV e il V secolo, mentre l’altro nell’Europa moderna del XVI secolo. Il primo risiedette a Betlemme diventando un monaco, il secondo abitò a Ginevra insieme alla moglie. Uno fu biblista e autore della Vulgata, la traduzione in lingua latina dell’intera Bibbia, l’altro fu collaboratore e successore di Calvino. Fino a qui questo strano accoppiamento non sembra quagliare, se non per l’interesse biblico-teologico che accomunava entrambi e per il loro inserimento nella storia della chiesa: uno come padre l’altro come riformatore. E se ci fosse di più? Per scoprirlo, bisogna tralasciare per un attimo le loro opere (effetto) ed immergersi nella loro vita, in particolare il momento in cui si convertirono al Signore (causa). 

Entrambi narrano vividamente il momento in cui il Signore lì chiamò a sé: Girolamo nell’Epistola 22, Beza nella lettera mandata all’umanista Melchior Wolmar, diventata successivamente la prefazione della sua Confessione di fede (1560). Mettendo a confronto i due resoconti, già molto somiglianti nel vocabolario e nello stile, si nota che ambedue sperimentarono una grave malattia che li portò in fin di vita. La condizione precaria accrebbe in loro il pensiero del giudizio divino rendendosi sempre più conto della loro corruzione umana e del bisogno di essere perdonati dal Signore. Le copiose lacrime e le grida di perdono rivolte a Dio si trasformarono in un sensazione di sollievo e in una pace che trasmise loro la sicurezza di essere stati perdonati. Solo allora, scrive Beza, “la malattia provò di essere l’inizio della vera salute” e Girolamo cominciò “a leggere gli scritti divini con molto più entusiasmo rispetto a quando leggev[a] scritti umani”. Una vera conversione al Signore porta a un cambiamento totale ed evidente. Non può essere altrimenti: da morti si è redivivi, da ciechi si riacquista la vista, da persi nel peccato si ritrova in Gesù Cristo la Via, la Verità e la Vita. Le prospettive cambiano e le priorità pure: non si vive più per se stessi ma per Cristo e il suo regno (Galati 2,20). 

Non sorprende quindi sapere che entrambi i nostri protagonisti ebbero come prima reazione un’antipatia verso se stessi e una gratitudine immensa verso colui che gli aveva salvati. Si resero conto di essere stati dei cristiani di facciata, abituati a compiere considerevoli azioni liturgiche esteriori, ma di essere intimamente meschini. Ambedue riconobbero che la loro conversione era avvenuta da uno pseudo-cristianesimo a un vero cristianesimo. Prima della conversione, azione e cuore non coincidevano, ma ora vivevano una fede sincera dove cuore, forza e mente erano connessi integralmente per amare Dio e il prossimo. Al ché, Girolamo, che era già a Betlemme nel momento della conversione, decise di rimanere lì, mentre Beza lasciò la Francia insieme a sua moglie per recarsi a Ginevra ed essere di sostegno alla causa protestante. Dato che entrambi erano stati formati, come consuetudine, negli studi classici, dopo un iniziale rigetto per le loro discipline “pagane”, si resero presto conto che anche quest’ultime dovevano e potevano essere utilizzate per la gloria del Signore e la testimonianza del Vangelo: Girolamo utilizzò le sue conoscenze per la traduzione della Bibbia, mentre Beza si avvalse della sua conoscenza dei filosofi per illustrare più chiaramente alcuni punti della dottrina biblica.  

Cosa possiamo trarre da queste due testimonianze? Primo, il Dio uno e Trino è lo stesso ieri, oggi e in eterno, ed opera nella storia in tempi e contesti differenti convertendo a sé coloro che per mezzo dello Spirito Santo realizzano di essere peccatori e credono per fede al perdono ricevuto in Gesù Cristo. Secondo, dobbiamo sempre tenere presente che all’interno delle chiese ci sono persone che seppur convinte di essere credenti, continuano a vivere nella menzogna di uno pseudo-cristianesimo o perché stanno mentendo a se stesse e resistono al Signore o perché il Vangelo non viene insegnato correttamente. Terzo, quando il Signore chiama a sé, egli dirige i passi dei suoi figli in svariati modi. Che sia rimanere nella stessa città e continuare a fare lo stesso lavoro o lasciare l’Italia perché convinti che il Signore stia chiamando ad andare in un altro paese, tutte e due sono opzioni valide fintantoché saranno vissute integralmente davanti a Dio e dirette dalla sua volontà. Quarto, nell’ottica della sovranità di Dio, le conoscenze e le capacità acquisite prima della conversione non devono essere scartate automaticamente perché ritenute “mondane”, ma in molti casi saranno reindirizzate non più verso la gloria dell’io ma quella di Dio e l’avanzamento del suo regno. Infine, questi due resoconti confermano ancora una volta ciò la Bibbia afferma ed è centrale nella dottrina evangelica, e cioè che la conversione è reale, attuale e il risultato evidente di una vita redenta da Dio.