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Habermas, il futuro della natura umana e i limiti del pensiero postmetafisico

Il volume di Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino, Einaudi 2002 riproduce una serie di lezioni tenute dal filosofo francofortese a Zurigo e Marburgo nel 2001, ma le cui tesi sono state discusse anche a New York nel corso di un seminario diretto da Ronald Dworkin e Thomas Nagel. Lo chiude una puntuale postfazione di Leonardo Ceppa, curatore dell'edizione italiana. L’ottica di pensiero dell’A. è postmetafisica, la medesima che ha approfondito in molte ed importanti opere: per lui, la filosofia deve limitarsi “ad indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti” (7). Come ragiona una simile impostazione di fronte alle controverse questioni aperte dallo sviluppo della genetica?

Il saggio portante del volume è proprio quello sui rischi di una genetica liberale, un campo che sempre più sollecita la riflessione etica. Com’è noto, le possibilità d’intervento sul patrimonio genetico sono una frontiera su cui la scienza sta investendo molto, ma che apre notevoli problemi di carattere etico. Secondo l’approccio liberale, l’intervento sul genoma degli ovuli fecondati è rimesso alla sola discrezionalità dei genitori mentre la modificazione delle caratteristiche ereditarie viene pensata in analogia all’educazione. I genitori che vogliono la migliore educazione possibile per il figlio possono legittimamente volere per lui anche il miglior corredo genetico possibile e quindi richiedere l’intervento sull’embrione a questo fine. Ciò significa sottoporre a test genetico l’embrione, scartarlo se portatore di difetti sgraditi, correggerlo se perfettibile, migliorarlo secondo i gusti e le esigenze avvertite. Habermas parla di “shopping nel supermarket genetico” (77-78) e di “allevamento razziale e selettivo dell’uomo” (72) quali scenari tutt’altro che fantascientifici verso cui porta l’etica liberale. Per il filosofo francofortese si tratta di degenerazioni cui un’etica postmetafisica deve opporsi. In che modo? 

Innanzitutto, Habermas fa una distinzione tra una genetica ‘negativa’, terapeutica, che scongiura le malattie ereditarie, e una genetica ‘migliorativa’, pianificante, che rimodella il patrimonio genetico. La prima è eticamente accettabile, la seconda no. Le ragioni di tale rifiuto sono da rinvenire nella casualità della nascita che deve essere indisponibile, cioè in linea di massima preservata. Gli interventi genetici migliorativi “compromettono la libertà etica in quanto fissano l’interessato a intenzioni di terze persone (intenzioni che restano irreversibili anche se rifiutate) e gli impediscono di concepirsi come l’autore indiviso della propria vita” (64). In altre parole, la genetica ‘migliorativa’ espropria gli individui dell’eguaglianza casuale della nascita e innesca un inaccettabile rapporto asimmetrico tra generazioni pianificatrici e generazioni pianificate. A questo proposito, l’A. richiama quello che Kierkegaard definiva il “poter-essere-sé-stessi”, senza manipolazioni e strumentalizzazioni esterne non condivise ed irreversibili.

Nell’argomentare l’apertura alla genetica ‘negativa’ e il rifiuto di quella ‘migliorativa’, Habermas fa sovente ricorso a concetti come ‘indisponibilità’ della vita umana, ‘autofinalità della persona’, ‘inviolabilità’ della dignità umana. In una frase illuminante, anche se complessa, l’A. parla di un “involucro deontologico di salvaguardia di confini che serve a tutelare l’inviolabilità della persona, l’inconfondibilità dell’individuo, la non delegabilità della sfera intima soggettiva” (83). C’è da chiedersi: non sono categorie, a loro modo, metafisicamente fondate? Non sono contenuti valoriali, a loro modo, appartenenti ad un certo nocciolo antropologico? Come si fa ad avanzare la pretesa di non parlare di contenuti quando si argomenta una certa idea di umanità? Che ne è della filosofia postmetafisica che fa astrazione dei contenuti e che si concentra solo sulle procedure? In realtà, l’impressione è che il pensiero postmetafisico sia anch’egli espressione di una sua metafisica e che non abbia veramente superato la metafisica tout court, pur coltivando quest’illusione. Alla fine, per arginare le degenerazioni eugenetiche dell’etica liberale, Habermas si appella al “common sense democraticamente illuminato” (106) all’interno di una “sfera pubblica polifonica” (107). Anche qui ci si chiede: il common sense è vuoto di contenuti metafisici e ideologicamente neutrale? No che non lo è. 

Nella postfazione, Ceppa ricorda che per Marx il senso comune è specchio delle idee della classe dominante; per Freud, esso deriva dall’interiorizzazione del super-io, ecc. Comunque sia, il common sense a cui si richiama Habermas non è vuoto di contenuti ideologici, morali, metafisici. È bene ricordarselo quando si legge la retorica dei postmetafisici sul superamento della metafisica!

Con gli strumenti di un pensiero postmetafisico davvero coerente, che esamina le procedure ma non si schiera sui contenuti, è difficile che gli ingegneri entusiasti di fantascienza trovino un orientamento etico che non sia il “fac quod vis”. Lo scenario è allora complicato. Da un lato, il magistero della chiesa cattolica, sulla scorta del principio metafisico della sacralità della vita umana, pone un veto morale alla genetica riproduttiva ma anche a quella terapeutica, ergendo quindi ostacoli che, di fatto, la ricerca ha già superato e che si è già posta alle spalle. Dall’altro, l’etica laica postmetafisica non può far altro che certificare ciò a cui la ricerca perviene senza avere strumenti etici in grado di orientarla, se non l’andare a ripescare un ‘contenuto’ antropologico che rifiuta in sede teorica. Se l’etica cattolica rincorre invano, l’etica laica è impotente, contorcendosi per trovare un senso comune morale senza voler rifondare le sue premesse. È necessario un altro itinerario etico che sblocchi la situazione tra il ‘niet’ dei cattolici e il ‘laissez-faire’ dei laici. 

La sfida per la riflessione etica evangelica è urgente. I progressi dell’ingegneria genetica sono un ulteriore richiamo ad assumersi l’onere di pensare l’etica secondo categorie che non siano quelle della metafisica cattolica e nemmeno quelle della presunta neutralità del pensiero laico. Il pensiero cristiano è in grado di ispirare un’etica biblicamente fondata e scientificamente sostenibile. Un’etica che accompagni la ricerca verso l’esplorazione della realtà e la sottomissione del creato, senza prevaricare il limite creaturale e la finitudine di ogni intrapresa umana. Un’etica che coniughi la libertà d’indagine scientifica e il senso del limite legato ad ogni attività umana. Un’etica che sappia valorizzare le norme morali, che sappia interagire con le situazioni sempre nuove e che sappia far leva sulla responsabilità dei soggetti coinvolti. I rischi di una genetica liberale sono davvero inquietanti, ma senza un’etica capace di farvi fronte in termini nuovi e diversi, non si potrà che assistere allo shopping nel supermercato genetico. 


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