“Insourcing” e “outsourcing”. Quanto è sana l’economia della vita cristiana?
Proviamo ad usare un linguaggio commerciale/aziendale applicato alle dinamiche cristiane. Nella fisiologia dell’esperienza di fede, la chiesa locale è il principale provider di servizi della vita cristiana. Non è il solo, ma il più prossimo, vicino, empatico, disponibile. Nella chiesa locale, una persona trova (dovrebbe trovare) insegnamento, comunione, comunità, celebrazione, sostegno. La chiesa locale è il soggetto dell’economia circolare a cui contribuire e da cui ricevere.
Ciò detto, la chiesa locale non è una monade chiusa e a sé stante. Il sistema “economico” cristiano è circolare, ma anche internazionale e sicuramente interconnesso. Certamente, ci sono altri provider: altre chiese locali (vicine o lontane), agenzie para-ecclesiali, libri e pubblicazioni, convegni, YouTube, social, ecc. L’articolazione della chiesa è tale da prevedere provider locali, nazionali e globali. Le chiese sono in rete. Alcune reti sono più strette (come quelle con chiese vicine geograficamente o denominazionalmente), altre sono più allentate (come quelle con chiese estere o all’interno di un organismo come l’Alleanza evangelica), ma comunque la chiesa evangelica è sempre in rete, altrimenti assume i tratti di una setta. Alcuni di questi provider esterni alla chiesa locale di appartenenza sono altre chiese (di cui si guardano i sermoni, di cui si frequentano saltuariamente le riunioni, a cui si guarda come modelli), altri sono soggetti che sono estensioni delle chiese o accanto ad esse (associazioni, iniziative, ecc.) che organizzano campi, conferenze, attività missionarie, formazione teologica, consulenza, ecc.
Tutto ciò appartiene alla fisiologia della vita cristiana. Alcuni servizi sono ricevuti in una modalità “insourcing” (cioè dalla chiesa locale), di altri si beneficia in una modalità “outsourcing” (cioè dalla chiesa allargata e nelle sue diverse articolazioni). E’ stato così da sempre: ad esempio, la chiesa locale di Filippi beneficiava del ministero “insourcing” dei vescovi e dei diaconi locali (1,1) e di quello “outsourcing” di Paolo e Timoteo (cap. 2). Le due modalità non sono in competizione e men che meno in contrapposizione, ma sono vissute in modo complementare. L’economia cristiana gira così perché la chiesa cristiana ha un’articolazione interna che prevede la dimensione locale e quella “cattolica” (universale).
Si può stabilire una percentuale che rileva un equilibrio sano? Quanto deve essere “insourcing” e quanto “outsourcing”? Difficile dirlo. E’ chiaro, però, che se l’economia della vita cristiana viene alimentata prevalentemente con l’“outsourcing” si è in presenza di uno scompenso. In altre parole, se si cercano insegnamento, comunione, comunità, celebrazione, sostegno, formazione, consulenza, ecc. solamente fuori dalle dinamiche della chiesa locale, ciò rivela o un grave problema nella chiesa locale o lo sbilanciamento verso forme di vita cristiana para-ecclesiali, senza reti “corte”, praticamente scollegate da un contesto locale.
Nell’esperienza cristiana contemporanea, la modalità “outsourcing” ha conosciuto un aumento esponenziale di opportunità: le comunità “virtuali” della rete a cui partecipare da casa propria, YouTube con i predicatori preferiti, la grande offerta convegnistica sui più disparati temi e per tutte le fasce d’età, ecc., hanno spostato il pendolo verso l’economia alimentata dall’“outsourcing”. Oggi la vita di molti credenti dipende più da servizi esternalizzati che da quelli ricevuti dalla chiesa locale. D’altra parte, la situazione di molte chiese locali è segnata da una “sofferenza” e da una “debolezza” nel produrre e far circolare risorse utili per i membri.
Non bisogna idealizzare la chiesa locale. Il Nuovo Testamento non lo fa: i vangeli parlano a comunità dove ci sono scandali e devianze varie. Le lettere apostoliche sono rivolte a chiese che portano con sé delle tossicità innegabili. Gli stessi elementi di criticità si possono riscontrare nello stato di salute delle chiese evangeliche, comprese quelle a cui apparteniamo. In ogni caso, la chiesa locale, per quanto ammaccata e malaticcia, rimane la realtà della chiesa più prossima alla vita e il contesto primario in cui ascoltare la parola di Dio in forma comunitaria, ricevere gli ordinamenti della vita cristiana (battesimo e cena) e imparare a vivere in modo disciplinato in un’ottica di crescita. Questo è un dato oggettivo del sistema economico cristiano da cui non si può prescindere. Mentre bisogna guardare con gratitudine (e discernimento!) all’abbondante offerta in “outsourcing” che il mondo evangelico produce, non bisogna mai allontanarsi dall’economia reale e circolare della chiesa locale. Se l’“insourcing” è scarso, troppo scarso, la situazione spirituale complessiva sarà in una bolla speculativa a rischio default.
Un piccolo esercizio per tutti è questo: in percentuale, quanto della mia vita cristiana è alimentato “insourcing” e quanto “outsourcing”? Sono soddisfatto/a delle percentuali emerse? Perché sì o no? Come posso incoraggiare percorsi di crescita dell’offerta “insourcing” della chiesa locale e non andare in automatico cercando ciò di cui ho bisogno nel mercato “outsourcing”?