Lovanio pensa a Nicea. Alla scoperta delle peculiarità del Concilio
È arrivato l’anno di Nicea. 1700 anni fa, 318 vescovi si riunirono nella città dell’Asia Minore per discutere dell’arianesimo (Gesù considerato creato e quindi inferiore a Dio), condannare la sua eterodossia e confermare la coeternità e consustanzialità di Padre e Figlio (Gesù Cristo è Dio quanto e da quando il Padre è Dio). Nicea fu una pietra miliare nella storia del cristianesimo, non perché aggiunse qualcosa al messaggio del vangelo, ma perché riuscì a preservare e difendere la verità biblica sull’identità unica di Gesù Cristo.
Quest’anno, quindi, non sarà una sorpresa sentire parlare di decine di conferenze incentrate sull’argomento in ogni angolo del mondo, a partire da Nicea stessa (Oggi Iznik, in Turchia). Tra i primi ad aprire le danze, cronologicamente parlando, è stata la Società dei teologi olandesi (Vereniging voor Theologie), incontratasi per la consueta conferenza a Lovanio dal 9 al 10 gennaio. Con il tema “Spiritualità vissuta: Le pratiche della fede cristiana e il Concilio di Nicea”, e alla presenza di una settantina di teologi e pastori, le due giornate hanno visto il susseguirsi di plenarie, presentazioni e laboratori. In questo articolo vale la pena spendere alcune parole su due delle tre plenarie.
La prima, guidata da Marcel Sarot (Università di Tilburg), si è incentrata non sul credo stesso, ma bensì su uno dei venti canoni emanati dai vescovi convenuti. Difatti, è bene ricordare che anche se il motivo principale fu la controversia ariana, il Concilio fu anche l’occasione di stabilire canoni e direttive concernenti il governo della chiesa. Curiosamente il ventesimo canone, cioè l’ultimo, parla del divieto di inginocchiarsi la domenica e durante la pentecoste, ritenendo consono pregare in pubblico solamente in piedi. Perché così tanto trambusto per la posizione assunta durante i culti? Si trattava del messaggio veicolato. Mentre inginocchiarsi era sinonimo di penitenza, restare in piedi con le braccia alzate simboleggiava la resurrezione di Gesù. Le domeniche e le festività dovevano commemorare sì la morte di Cristo per i peccati dei credenti, ma altresì gioire e rallegrarsi, anche attraverso il proprio corpo, per la resurrezione del Figlio di Dio. Così come il gesto del battesimo rappresenta la morte e la vita in Cristo, secondo gli antichi anche la postura dei credenti durante il culto doveva comunicare il loro stato di uomini e donne ravvivati in Cristo.
La seconda plenaria, condotta da Jennifer Strawbridge (Università di Oxford), ha approfondito una caratteristica peculiare dei partecipanti al Concilio. 311 su 318 erano infatti confessori, cioè persone che avevano subito persecuzioni per la loro fede ricevendo ogni sorta di tortura. C’era chi era stato accecato, chi era stato mutilato di mani e piedi, chi gli erano state tagliate le orecchie (meglio non continuare con le descrizioni). Questo per dire che si trattava di persone che avevano sofferto per la ferma fede che avevano avuto nel Signore Gesù Cristo. Chi soffrirebbe a tal punto per una creatura, come gli ariani affermavano? Era evidente che i confessori fossero stati sostenuti dalla fede nel Dio pienamente rivelato e incarnato in Gesù Cristo. E i loro corpi ne erano la palese testimonianza.
Questi due interventi gettano luce su aspetti poco frequentati del Concilio. Contro la tendenza gnostica, il corpo era considerato parte integrante dell’adorazione dei credenti. La fede nella morte e resurrezione di Cristo, sperimentata nel cuore e confessata con la bocca, doveva essere vissuta anche con il proprio corpo. Contro un’idea del Concilio impersonale e avulsa dalla realtà, la biografia dei partecipanti ci rivela il contrario. I loro marchi dimostrarono insieme alle loro parole la loro piena convinzione che Gesù Cristo non fosse semplicemente una creatura straordinaria, ma bensì “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della sostanza del Padre”.
N.B. Il prossimo fascicolo di Studi di teologia, il N. 73, in uscita a febbraio 2025, sarà dedicato proprio a “Nicea (325) allora e ora”.