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“Mangiare Dio”: sintesi del cattolicesimo romano?

Di primo acchito sembra un gesto cannibalico, anche se rivolto a Dio e non a un simile. Eppure è la quintessenza del cattolicesimo romano. Stiamo parlando del “mangiare Dio”, atto che sta al cuore della comprensione cattolico romana dell’eucarestia. Davvero il cattolicesimo può essere pensato come la religione del “mangiare Dio”? A parlarne è Matteo Al Kalak, professore di storia moderna a Modena-Reggio, nel suo ultimo libro: Mangiare Dio. Una storia dell’eucarestia, Torino, Einaudi 2021.

In realtà, il libro è una storia dell’eucarestia dal Concilio di Trento in poi e si concentra sulle testimonianze italiane di come l’eucarestia sia stata elevata a primario riferimento identitario, praticata, insegnata, protetta, abusata, utilizzata per vari scopi anche extra-religiosi. Non stupisce che, in polemica di fronte alle sfide poste dalla Riforma protestante (in tutte le sue variabili eucaristiche: dalla versione luterana tedesca a quella svizzera calviniana-zwingliana), il Concilio di Trento abbia sottolineato il carattere sacrificale della messa e abbia fatto dell’eucarestia il perno della Contro-riforma. Il libro di Al Kalak è una raccolta ragionata di tessere volta a formare un mosaico che riflette l’importanza cruciale avuta dall’eucarestia nella costruzione dell’immaginario cattolico post-tridentino.

Al di là della storia raccontata dal libro, ciò che interessa è riflettere sul titolo: “mangiare Dio” e sulla sua utilizzabilità nel descrivere il tratto profondo del cattolicesimo romano. Già nei primi secoli della chiesa, i cristiani erano talvolta accusati di cannibalismo proprio in relazione alla Cena del Signore. Il pasto con pane e vino associati alla memoria del corpo e del sangue di Gesù Cristo poteva dar luogo a fraintendimenti. Si trattava di un “corpo” veramente umano? Si trattava del sangue di un cadavere? Si trattava dunque di un pasto cannibalico? L’apologetica cristiana dei primi secoli ha cercato di dipanare il più possibile gli equivoci, respingendo in modo sdegnato l’accusa di cannibalismo e semmai indicando il carattere di ubbidienza ad un ordinamento istituito da Gesù stesso. 

Eppure, già a partire dal IV Concilio Lateranense (1215) e, a maggior ragione dal Concilio di Trento, la chiesa di Roma si è legata ad una comprensione “transustanzionista” del sacramento per la quale, dopo la consacrazione della specie e la trasformazione della natura delle stesse in corpo e sangue di Cristo, c’è un senso in cui l’eucarestia è un vero e proprio “mangiare Dio”. Se l’ostia diventa realmente carne e sangue, assumerla significa in qualche modo “mangiare” il corpo e il sangue di Cristo Dio: dunque, “mangiare Dio”. 

Si può veramente arrivare a tanto? Evidentemente sì, secondo Roma. Mentre la Riforma ha insistito nel recuperare la distinzione tra Creatore e creatura, la radicalità del peccato delle creature e la gratuità della mediazione del Dio-uomo Gesù Cristo per la salvezza di chi crede, la Chiesa cattolica ha invece virato sull’analogia tra Creatore e creatura e sul prolungamento della mediazione di Cristo nella chiesa gerarchica e sacramentale, al punto da considerare possibile, pensabile, attuabile il “mangiare Dio” da parte della creatura. Per il cattolicesimo l’uomo sarebbe “capace di Dio” (capax dei) al punto da poterlo e doverlo realmente “mangiare”.

È questo il senso del pasto che il Signore Gesù ha istituito la notte in cui fu tradito e che ha consegnato alla chiesa affinché lo perpetuasse in memoria di Lui? Su questa domanda il dibattito nella storia è stato vivacissimo ed è tuttora cruciale. Nel “mangiare Dio” il cattolicesimo mette tutta la sua visione del mondo: l’analogia dell’essere non deturpata dal peccato, l’estensione dell’incarnazione nella chiesa, la divinizzazione dell’uomo, il “già” della salvezza goduto nella fruizione dei sacramenti senza aspettare il “non ancora” del banchetto finale. A ben pensare, “mangiare Dio” è una sintesi del cattolicesimo romano, ma è un “mangiare” biblicamente possibile ed anche auspicabile?


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