Piazza Grande, alla ricerca vana della propria identità
Mandolino, chitarra, una voce incantevole e un accento inconfondibile. Queste sono gli ingredienti che compongono una delle canzoni più famose e anche più belle degli anni Settanta in Italia. Composta su una nave da Napoli a Sicilia, Piazza Grande sarebbe diventata una delle canzoni più richieste e conosciute del cantautore celebratissimo, Lucio Dalla.
Nonostante la Piazza Grande sia in genere confusa con la piazza più famosa di Bologna, Piazza Maggiore, questa canzone classica tratta in realtà di un senzatetto che vive in Piazza Cavour a Bologna. E secondo me, questo fatto rende ancora più bella la canzone perché ho vissuto anch’io a pochi passi da questa piazza storica nel 2013. Infatti, ho parecchi bei ricordi di gelati mangiati alla Funivia (oggi Cremeria Cavour) con buoni amici proprio su quelle panchine di cui canta Dalla.
Però più accattivante della nostalgia che evoca in me, non posso fare altro che tornare in continuazione al ritornello di questa canzone:
A modo mio avrei bisogno di carezze anch'io
Avrei bisogno di pregare Dio
Ma la mia vita non la cambierò mai, mai
A modo mio quel che sono l'ho voluto io
Queste parole sono evidenziate dalla musica per essere proprio l’apice della canzone e così rendono questo pezzo un inno del nostro momento culturale, un inno alla libertà e all’autonomia individuale. “A modo mio”. È questo il richiamo della nostra cultura. Bisogna vivere la vita secondo i propri termini. Bisogna sognare secondo il proprio modo di concepire la vita. Certo, si può anche sentire qualche bisogno di “pregare Dio” di tanto in tanto, però non confondiamoci. È sempre a modo mio. Perché, tanto, “quel che sono l’ho voluto io”.
Queste parole, tuttavia, suscitano una domanda importante: ma la vita vissuta in questa maniera vive all’altezza delle sue aspettative?
Diversi hanno suggerito che non è proprio il caso. Per esempio, nel suo libro La fatigue d’être soi, il sociologo francese Alain Ehrenberg dice che la persona moderna auto-creata è “affaticata dalla sua propria sovranità”. Dice questo perché l’identità auto-definita proviene dalla performance individualistica che mette una pressione immensa sulla persona di farsi sempre valere. Inoltre, secondo l’opus magnum del filosofo Charles Taylor, L’età secolare, questa pressione porta ad un “malessere dell'immanenza” che è definita da “la sensazione che tutte queste risposte (riguardo al proprio significato) sono fragili, o incerte; che può arrivare un momento in cui non sentiamo più che il percorso che abbiamo scelto è convincente e che non lo possiamo giustificare né a noi stessi né agli altri”.
Eppure, ci sforziamo comunque. Infatti, forse l’esempio più chiaro di questa fatica e di questo malessere dell’identità auto-creata si trova dove Dalla meno se la sarebbe aspettato… sui social. Secondo un articolo di Repubblica queste “piattaforme… ruotano intorno all'immagine e sembra che possano condurre a sentimenti di inadeguatezza e ansia”. Insomma, ormai non è un segreto che, per tanti, c’è proprio una compulsione di dover creare un’immagine di sé stessi che è sempre più attraente e che acquisisce sempre più “like”, che però tristemente non corrisponde alla realtà e porta a sempre più depressione e ansia. Così nel nostro momento culturale, nonostante tutti i nostri sforzi in senso contrario, ci troviamo sempre più spesso di fronte alla realtà che “non possiamo giustificar(ci) né a noi stessi né agli altri”.
Ma l'identità “a modo mio” della nostra cultura laica non è l’unico modo per creare un'identità in base alla propria performance. Anzi ce n’è un altro forse ancora più sottile che porta anch’esso all’essere “affaticati dalla propria sovranità” e al malessere. E questo modo è il modo religioso.
Diversamente dal modo di vivere laico schiettamente autonomo, il modo religioso di crearsi un’identità sembra stare dalla parte di Dio. Sembra seguire tutte le regole. Insomma, sembra rappresentare i valori tradizionali. Però fino in fondo anche questo modo di vivere sussurra l’inno dell’autonomia: “a modo mio”.
Certo, può sembrare di stare dalla parte di Dio, però in realtà anche il modo religioso di crearsi un’identità si fonda sulla performance individuale. Insomma, anch’esso fa tutto per giustificarsi davanti a Dio, a sé stessi e agli altri. E anch’esso porta alla fragilità e all’incertezza.
Tale modo di giustificarsi si trova ovunque nelle pagine del Nuovo Testamento (e anche dell’Antico). E la cosa ironica di questo modo di crearsi un’identità è che, nonostante la sua apparente ubbidienza a Dio, non vuole in realtà Dio stesso per niente! Invece, vuole solo quello che Dio gli può dare. Dunque si sforza di fare il bravo per ingraziarsi nei confronti di Dio affinché Egli gli “dovrà” quello che si aspetta, anche se Dio non deve mai niente a nessuno (Romani 11,35-36).
Così, il modo religioso per crearsi un’identità non è tanto diverso dal modo laico. Infatti, tutti e due i modi cercano la propria felicità secondo i propri termini e tutti e due cercano di farsi valere tramite la loro performance, sebbene invano.
Dunque, per tornare a Piazza Grande, tutti e due i modi di crearsi un’identità ci fanno diventare dei barboni emotivi e spirituali. Ci rendono sempre più fragili ed incerti mentre vaghiamo di impresa in impresa, di rapporto in rapporto alla ricerca di sogni e carezze. Insomma, ci fanno diventare mendicanti che sono destinati a “rubare l’amore in Piazza Grande”.
Per fortuna, però, c’è un’altra opzione, e sarebbe quella di ricevere un’identità. A differenza di sforzarsi per crearsi un’identità solo per finire nell’incertezza e nell’ansia, il ricevere un’identità ci libera dalla pressione della performance. Anziché costruirsi un’identità fragile che richiede sempre più affermazione rafforzativa, il ricevere un’identità ci rende fiduciosi a prescindere dalle montagne russe delle circostanze.
E l’unico modo di ricevere un’identità così salda e duratura è di smettere di cantare il ritornello “ma la vita non la cambierò mai, mai”. L’unico modo di ricevere un’identità di questo genere è di riconoscere quant’è fallito e fallimentare il richiamo “a modo mio” e di porre la propria fiducia nella performance di un Altro. E questa performance non è altro che la performance perfetta guadagnata nella vita, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. Insomma solo ponendo la fede in questa performance sufficiente possiamo trovare le carezze che cerchiamo. Solo ponendo la fede in Cristo possiamo essere “coperti dalle lenzuola bianche sotto le stelle” perché solo la performance di Gesù può coprire la nudità della nostra vergogna, delle nostre mancanze e delle nostre insicurezze.
Come dice il profeta Isaia:
Io mi rallegrerò grandemente nel SIGNORE,
l'anima mia esulterà nel mio Dio;
poiché egli mi ha rivestito delle vesti della salvezza,
mi ha avvolto nel mantello della giustizia,
come uno sposo che si adorna di un diadema,
come una sposa che si adorna dei suoi gioielli.