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Quale lezione dell’omiletica di Jonathan Edwards per l’Italia?

Jonathan Edwards (1703-1756) è stato definito o l'"Agostino americano" (Richard R. Niebuhr), o più semplicemente, ma non meno significativamente, il "teologo d'America" (Robert Jenson). Se queste definizioni sono verosimili, e niente fa pensare che non lo siano, una figura di tali dimensioni non può essere ignorata anche al di fuori del suo ambiente culturale di provenienza. La sua importanza travalica il campo della teologia in senso stretto e investe quello della filosofia e della letteratura, della storia e della cultura. Cosa dire in particolare della sua lezione omiletica 

Secondo un teologo evangelico come James Packer, “il benessere della chiesa oggi dipende in gran parte dalla riscoperta della predicazione sulla base del modello puritano”[1]. Se questo può essere immediatamente riferibile agli ambienti anglosassoni che sono stati storicamente influenzati dal puritanesimo, che dire di Paesi come l’Italia che quella tradizione non l’hanno conosciuta?

Negli ultimi anni, il tema della predicazione è stato finalmente posto al centro dell’attenzione da parte della pubblicistica in lingua italiana[2], mentre l’impatto nella vita delle chiese stenta ancora a farsi sentire in maniera altrettanto considerevole. In questo quadro fluido, ma ancora acerbo e in divenire, il confronto con un modello ricco della storia dell’evangelismo non può che essere salutare. Non si tratta, però, di riprodurre meccanicamente un modello di predicazione che appartiene ad un altro periodo storico e ad un altro contesto culturale. In questo senso, la “riscoperta” di cui parla Packer non può essere l’importazione a scatola chiusa di una tradizione omiletica e la sua ripetizione automatica in Italia. Questa strada è una falsa scorciatoia che non porta da nessuna parte perché è antistorica e priva della necessaria contestualizzazione. La “riscoperta” è un processo più complesso perché deve fare i conti con l’assenza di modelli credibili di partenza e con la distanza storica e culturale del modello puritano che si vuole introdurre. Eppure, pur nella consapevolezza della complessità dell’inculturazione e dell’attualizzazione del modello puritano, il confronto con esso può sicuramente giovare. Anzi, deve essere perseguito con umiltà e desiderio di mettersi in discussione, abbandonando la saccenteria e il senso di auto-sufficienza. 

La predicazione di Edwards ci può aiutare proprio in questo: nel guardare avanti, facendo tesoro del passato; nel predicare l’evangelo qui e ora, nella consapevolezza di come è stato predicato in uno dei momenti più alti della storia evangelica moderna; nell'imparare dalla tradizione puritana (esegetica, cristocentrica, argomentata e ben strutturata, applicativa) per prolungare una testimonianza evangelica solida e ariosa nella nostra cultura moderna e postmoderna. Una predicazione teologicamente solida, culturalmente rilevante ed evangelisticamente orientata come quella di Edwards è una formidabile pista di rullaggio da cui decollare per sperare in una grande e sorprendente opera di Dio nel nostro Paese.

[1] J.I. Packer, A Quest for Godliness, Wheaton, Crossway Books 1990, p. 281.

[2] Cfr., tra gli altri, AaVv, “La predicazione biblica”, Studi di teologia NS VI (1994/1) N° 11; A. Martin, L’ascolto della Parola, Caltanissetta, Alfa & Omega 2000; M. Lloyd-Jones, Predicazione e predicatori, Virgilio (MN), Passaggio 2002; A. Kuen, Come predicare, Marchirolo, EUN 2006; J. Piper, La supremazia di Dio nella predicazione, Caltanissetta, Alfa & Omega 2008; C.H. Spurgeon, Lezioni ai miei studenti, 2 voll., Caltanissetta, Alfa e Omega 2006-2008; B. Chapell, La predicazione cristocentrica, Caltanissetta, Alfa e Omega 2016.


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