Stottiana (IV). 1966: Quando John Stott si scontrò con Martyn Lloyd-Jones

 
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Nella storia evangelica contemporanea, il 18 ottobre del 1966 è una data da ricordare.  Martyn Lloyd-Jones, predicatore gallese, rivolse un accorato appello in occasione di un’assemblea nazionale degli evangelici convocata dall’Alleanza evangelica britannica. Dopo aver ribadito che “l’unità è qualcosa che dev’essere visibile, oltre che spirituale”, sostenne che “la cosa più patetica di tutte è che il nostro atteggiamento nei confronti della questione dell’unione della chiesa è sempre negativo… L’impressione che viene data è che gli evangelici sono interessati a mantenere l’integrità delle diverse denominazioni. Per me questo è tragico”.

Sullo sfondo c’era una critica soprattutto agli anglicani evangelici che erano parte di una denominazione (la Chiesa d’Inghilterra) che, per molti versi, aveva reso strutturale il suo allontanamento dall’evangelo. Lloyd-Jones deplorò l’idea che gli evangelici si accontentassero di essere “l’ala evangelica” di una chiesa che era chiesa solo sulla carta. Per lui non bastava criticare un’istituzione ecclesiale spuria che ha rinnegato la sostanza del vangelo senza dissociarsi da essa.

Dopo aver ricordato che la chiesa è costituita dai “santi”, Lloyd-Jones affermò: “Ciò di cui abbiamo bisogno oggi, al di sopra di tutto, è un numero di queste chiese, tutte in comunione tra loro, che lavorino insieme per gli stessi fini e obiettivi”. Per Lloyd-Jones, non si poteva demandare alle associazioni, ai movimenti, alle iniziative paraecclesiali ciò che chiama in causa le chiese in quanto tali. L’unità riguardava in primo luogo le chiese. Di fronte all’esigenza di tradurre operativamente l’appello all’unità, si trattava di elaborare tra le chiese questo progetto in tutti i suoi dettagli. L’appello di Lloyd-Jones si concluse con l’auspicio della costituzione di “una comunione, o un’associazione, di chiese evangeliche”.

Com’era prevedibile, l’intervento di Lloyd-Jones suscitò un’immediata reazione da parte di John Stott (evangelico anglicano) che teneva la presidenza dell’incontro. In un’atmosfera tesa e concitata, nella sua breve replica, Stott prese la parola per dichiarare: “Credo che la storia sia contro ciò che il Dr Lloyd-Jones ha detto… La Scrittura è contro di lui, il resto fedele era dentro la chiesa e non fuori. Spero che nessuno agisca in modo precipitoso”. Il timore immediato dell’anglicano Stott era che l’appello avesse potuto causare la fuoriuscita di numerosi evangelici dalla chiesa anglicana. Infatti, gli evangelici anglicani erano i primi, ma non i soli, destinatari dell’appello. La proposta di Lloyd-Jones non venne fatta propria dall’assemblea e successivamente accantonata. Di fatto, facendo cadere nel vuoto quell’appello, si perse in Gran Bretagna l’occasione “provvidenziale” di ripensare l’unità cristiana in modo radicale, anzi venne approfondita ancor di più la spaccatura tra l’anima “anglicana” e quella “non conformista” dell’evangelismo anglosassone. Oggi, le ferite di quell’episodio sono forse cicatrizzate ma tutt’altro che guarite.[1]

L’appello del 1966 è stato oggetto di numerose interpretazioni. C’è chi lo ha letto come un invito alla costituzione di un’unica chiesa evangelica, chi lo ha visto come “una campagna fatta di parole senza piani concreti”, chi lo ha recepito come improponibile perché viziato all’origine da un separatismo ecclesiale inaccettabile. Sicuramente, Lloyd-Jones non aveva in mente l’istituzione di un soggetto ecclesiale unico nel quale tutte le chiese avrebbero dovuto fondersi. Non a caso, si riferì ad “una comunione, o un’associazione, di chiese”. Inoltre, è vero che l’appello non era un progetto ben articolato e pensato nei suoi dettagli; del resto, lo stesso Lloyd-Jones aveva riconosciuto l’esigenza di elaborare le modalità, i tempi e le tappe di un processo unificativo. L’appello indicava una prospettiva, non un piano operativo. Infine, è vero che l’appello di Lloyd-Jones traeva ispirazione da una certa concezione della chiesa che configgeva con quella degli evangelici che avevano scelto di rimanere in chiese moltitudiniste e miste.

Stott si oppose a questo processo unificativo degli evangelici all’interno di un ripensamento dell’ecclesiologia. Di fronte all’appello del 1966, la sua “anima” anglicana ebbe la precedenza su quella evangelica.

[1] Ho trattato di questo episodio e delle questioni teologiche sottese nel libro Quale unità cristiana? L’ecumenismo in discussione, Caltanissetta, Alfa & Omega 2016, pp. 95-110.