Una botta “romana” (vaticana) al cerchio “cattolico” (tedesco)

 
 

Il cattolicesimo romano è fatto così. E’ cattolico (inclusivo, accogliente, assorbente) ed è romano (centralistico, gerarchico, istituzionale), allo stesso tempo. E’ sinuoso e squadrato. E’ fluido e rigido. E’ morbido come il velluto ed è abrasivo come la carta vetrata. Certo ci sono fasi storiche in cui è la cattolicità a prevalere sulla romanità e ci sono combinazioni diverse nel modo le due qualifiche si intrecciano tra loro. Il Concilio di Trento (XVI secolo) è stato molto “romano” con le sue definizioni dogmatiche e le sue scomuniche. Il Concilio Vaticano II (XX secolo) è stato molto “cattolico” con il suo ecumenismo e con il suo abbraccio al mondo moderno. Pio IX è stato un papa “romano”, Francesco è un papa “cattolico”. Si potrebbe andare avanti con altri esempi. Il punto è che l’essenza del cattolicesimo romano di essere sempre un equilibrio in tensione tra cattolicità e romanità.  

Roma non è solo “cattolica”, altrimenti si diluirebbe e si disperderebbe. Non è solo “romana”, altrimenti si irrigidirebbe in un sistema chiuso. E’ entrambi allo stesso tempo. Un esempio della dinamica cattolica e romana è proprio di questi giorni e ha come protagonisti il “Cammino sinodale” della chiesa cattolica tedesca e il Vaticano. 

Da alcuni anni in Germania è in corso un’iniziativa cattolica che coinvolge vescovi, laici e religiosi che ha raccolto molte voci critiche al cattolicesimo tradizionale e ha proposto riforme ad alcune prassi consolidate: il “Cammino sinodale” ha proposto il diaconato femminile (in vista del presbiterato femminile), il riconoscimento delle coppie omosessuali, il rilassamento dell’ammissione all’eucaristia, ecc. Tutte misure molte “cattoliche”, inclusive, progressiste, allarganti la sintesi tradizionale. 

Importanti settori del cattolicesimo tedesco (ad esempio il cardinal Kasper) ed internazionale (ad esempio, i circoli conservatori USA) hanno espresso crescenti preoccupazioni per la piega dirompente del “Cammino sinodale”. Per cercare di riportare ordine, nel 2019 papa Francesco aveva scritto una lettera ai cattolici tedeschi il cui succo era il seguente: “va bene il sinodo, va bene il cambiamento, ma sempre dentro le strutture romane e con tutta l’istituzione ecclesiastica”. Questo richiamo è passato praticamente inosservato e il “Cammino sinodale” tedesco è andato avanti imperterrito con le sue risoluzioni molto “cattoliche” e per nulla “romane”. 

E’ notizia di ieri che, paventando la rottura dell’equilibrio tra cattolicità e romanità, il Vaticano ha diramato una “Dichiarazione della Santa Sede” (21/7/2022) in cui, d’imperio, si dice sostanzialmente che il “Cammino sinodale” non può modificare credi e prassi di tutta la chiesa universale e che, semmai, le sue istanze possano e debbano essere portato all’interno di un percorso più ampio che sfocerà nel Sinodo dei vescovi sulla sinodalità del 2023. Traduzione dall’ecclesiastichese: “cari cattolici tedeschi, avete tirato troppo la corda, ora le strutture centrali vi richiamano all’ordine per farvi riconfluire negli argini della chiesa centrale”. Detto in ancora meno parole: “va bene la cattolicità, ma non a spese della romanità”. Il cattolicesimo romano è l’uno e l’altro.

Il Vaticano ha ritenuto che il momento sia giunto per battere un colpo “romano” al percorso “cattolico” del “Cammino sinodale”. Ha temuto che il pendolo della cattolicità corresse il rischio di rompere l’involucro della romanità.  

Questo colpo romano è solo l’ultimo di una serie di continui aggiustamenti che tengono il sistema in un equilibrio dinamico. Rispetto al liberalismo teologico che, da Schleiermacher in poi, spinge l’acceleratore delle chiese protestanti storiche sulla continua re-invenzione del cristianesimo per adeguarlo alla cultura dominante, il cattolicesimo è aperto a “svilupparsi” senza perdere la sua struttura istituzionale. 

Per questo il cattolicesimo non è interessato ad una “riforma” nel senso dell’evangelo. Vuole inglobare sensibilità nuove e diverse (evangeliche, carismatiche, ecc.) senza perdere la sua auto-comprensione sacramentale e gerarchica. Vuole l’evangelo, ma anche la mariologia, le devozioni, il liberalismo, il “siamo tutti fratelli” e senza perdere il suo concepirsi come chiesa “di diritto divino” le cui istituzioni hanno anche un profilo politico. Se la tensione tra la cattolicità e la romanità non è spezzata dall’evangelo, Roma non cambierà mai: si muoverà di qui e di là, senza avvicinarsi a Gesù Cristo.