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Violenza a scuola. Basta lo psicologo in classe?

Violenza e scuola sono due realtà che non dovrebbero mai andare insieme. In passato quando si parlava di violenza a scuola ci si riferiva a quella istituzionale, la coercizione e il potere esercitato da collegi, istituti, scuole e dai loro rappresentanti, potere spesso abusato nei confronti dei sottoposti. Oppure, secondo la critica marxista, si parlava della scuola come riproduzione della violenza di classe, attraverso la selezione.

Oggi invece quando se ne parla si hanno in mente tutti quegli episodi di violenza personale degli adulti sui minori, dei ragazzi gli uni verso gli altri (bullismo), tra genitori e insegnanti e, più di recente, da parte degli studenti contro i professori. Casi del genere, fino a qualche anno fa, erano situazioni episodiche. Prendiamo il caso del giovane che ha accoltellato la sua insegnante ad Abbiategrasso, non più un caso isolato, che ha fatto molto scalpore e ha contribuito a creare un clima di allarme e di emergenza nelle scuole di ogni ordine e grado.

Sembra che il ragazzo non avesse apparentemente alcun motivo per aggredire la sua insegnante. Tutti si interrogano privatamente e pubblicamente su che cosa stia succedendo nella scuola ai nostri ragazzi. C’è chi punta il dito sulla mancanza di empatia dei docenti, a volte incapaci di suscitare interesse e partecipazione; altri incolpano lo stile educativo permissivo e tollerante, oppure la maleducazione delle giovani generazioni, altri ancora affermano che siamo tutti colpevoli e responsabili di questa deriva. Il Ministro Valditara ha pensato di introdurre lo psicologo a scuola o di potenziare il servizio, dove già è presente uno sportello di aiuto.

In realtà, è evidente che di fronte a questa situazione siamo sconcertati e spiazzati, e nessuno ha fornito fino a ora una diagnosi corretta e una corretta prognosi. Dal fatto che episodi di tale violenza si verifichino a scuola, non consegue necessariamente che la scuola ne sia l’origine. Siamo invece consapevoli che la violenza fa parte del nostro contesto di vita quotidiano, a partire dalla famiglia per arrivare alla guerra tra popoli. Un contesto che pesa sugli studenti ma anche sugli insegnanti, che non sono immuni da rischi e sfide più grandi di loro. Se è vero che gli insegnanti non sono perfetti, tuttavia non ci si può nemmeno aspettare che la scuola possa dare soluzione ai problemi del mondo.

Introdurre lo psicologo a scuola significa non percepire la portata del problema. Non si tratta qui di incoraggiare i depressi, di motivare gli indifferenti e di supportare l’autostima. Siamo di fronte a un profondo e oscuro malessere, che spinge i giovani a preferire il biasimo, l’espulsione e, al limite, la condanna, pur di uscire dalla palude dell’indifferenza. Il sistema è diventato tossico a tal punto che non è più in grado di salvaguardare spazi di relazioni umane costruttive.

C’è chi afferma che siamo tutti responsabili, forse pensando ancora di essere al tempo in cui si invocava e si credeva nella “società educante”. Dire che siamo tutti responsabili rischia di portare alla conclusione che allora nessuno è responsabile. Se in una certa misura tutti sono portatori di un potenziale educativo, se non altro per l’esempio, è tuttavia sbagliato non riconoscere che i primi e autentici responsabili sono i genitori. Tuttavia, è difficile prendersela con loro, perché è proprio la famiglia a essere sotto un attacco senza precedenti. Non solo nelle famiglie i coniugi spesso vivono da separati, ma sempre di più si separano di fatto e i figli ne subiscono i contraccolpi. Non è più chiaro che cosa sia la famiglia, perché avanzano teorie che vorrebbero identificarla con qualunque gruppo di persone che “si amano”. Qualcuno ha fatto notare che se la famiglia è qualunque cosa, essa non è più alcuna cosa, e quindi tale definizione finisce per annientare il nucleo principale della società. Resta comunque il fatto che il luogo deputato all’allevamento dei figli e alla cura delle generazioni rimane la famiglia.

Il riferimento alle persone che “si amano”, tocca comunque un tasto dolente. In effetti questi nostri ragazzi, nonostante tutte le loro idiosincrasie, gli atteggiamenti trasgressivi e cinici, i gesti eclatanti e plateali, sono affamati di amore, ma non di un amore tiepido, miope ed egocentrico, non un amore puerile e vanesio, ma un vero grande amore, un amore maturo e responsabile, capace di sacrificio per le persone che ama. Un amore come questo non è patrimonio dell’umanità, benché di questo l’umanità viva, ma è un dono che viene da alto. Quell’amore che è in eterno nella Trinità ed è stato incarnato dal Signore Gesù nei giorni della sua carne, un amore la cui “larghezza, lunghezza, altezza e profondità” sono a disposizione di coloro che hanno sete e fame di esso.

I nostri ragazzi, che sfogano con la violenza la loro angoscia di vivere, che hanno paura del futuro e che si sentono smarriti e abbandonati, ma anche quelli che si ritirano nei loro device sognando un futuro migliore, hanno tutti bisogno di questo amore. Non saranno gli psicologi, nemmeno i bravi professori e al limite i poveri bistrattati genitori a dare loro la risposta giusta ed appagante. Ma noi adulti che abbiamo ricevuto e conosciuto l’amore di Cristo, noi possiamo essere per loro un segnale, un dito che indica la giusta direzione, un esempio di amore sacrificale e fervente per chiunque di loro che incontriamo.


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