Accogliere i rifugiati? Sì, ma come, chi, perché?

 
 

Dopo essere stato intervistato sul tema della responsabilità della denuncia della guerra in Ucraina (inglese; italiano), la rivista evangelica Christianity Today mi ha fatto un’altra intervista sulle responsabilità dell’accoglienza dei rifugiati, poi confluita in un articolo che riporta più voci. Anche in questo caso, spero che queste brevi risposte su temi complessi possano essere di qualche utilità.

D: Nella sua calorosa accoglienza dei rifugiati ucraini, l'Europa/Est Europa è stata ipocrita rispetto al rifiuto di quelli provenienti dalla Siria (compresi Medio Oriente e Asia)?

Non credo. C'è un senso in cui abbiamo responsabilità differenziate con il "prossimo" a seconda dei legami familiari o dell'assenza di questi, relazioni "brevi" o "lunghe" (es. paesi vicini vs paesi lontani; connessioni storiche tra paesi in epoca coloniale vs nazioni vagamente collegate), possibilità contingenti (es. budget, situazione economica, tasso di disoccupazione) e altri fattori. Penso che il problema principale delle politiche europee relative all'immigrazione sia che ci sono 27 politiche diverse e ogni Paese tende a pensare in termini limitati ed introspettivi. Per questo i singoli Paesi si sentono sopraffatti e spesso incapaci di offrire aiuto.

D: C'è una differenza nell’obbligo di protezione nei confronti di un rifugiato rispetto a un migrante?

Sì, pur essendo aperto ad offrire ospitalità a tutti i bisognosi, il rifugiato è colui che fugge dalla guerra e ha bisogno di una protezione più solida e immediata.

D: È giusto che uno stato protegga/incoraggi l'eredità e l'identità cristiana? Quali sono le implicazioni della tua risposta?

L'idea di un'identità cristiana dello Stato è gravida di problemi. Cosa intendiamo esattamente con ciò? Che lo stato si identifichi con una forma culturale e nominale di cristianesimo? Che i cristiani siano cittadini di serie A mentre gli altri di serie B (es. con meno diritti)? E poi che tipo di cristianesimo? Vengo da un Paese fortemente segnato dal cattolicesimo romano che fino agli ultimi decenni è stato ostile al pluralismo religioso e al rispetto delle minoranze. Non credo sia responsabilità dello Stato proteggere l'identità cristiana: questo è il ruolo della chiesa. È un processo dal basso verso l'alto piuttosto che dall'alto verso il basso. Il ruolo dello Stato è quello di tutelare le disposizioni costituzionali per la vita civile, lasciando alla chiesa (e per estensione ad altri gruppi religiosi) il compito di promuovere le identità religiose.

D: È legittimo che un individuo o una chiesa serva prima la famiglia o i credenti, specialmente se le risorse sono limitate? Lo stesso vale per etnia, razza, cultura o istruzione? Potrebbe valere anche per lo stato? Come vengono tracciate le linee?

Sì, c'è una certa legittimità secondo Galati 6,10. Un criterio di priorità simile si applica alla "famiglia" estesa o nazionale, ma non vedo ragioni per cui dovrebbe applicarsi alla cultura e all'istruzione. Sebbene vi sia un mandato biblico di dare la priorità ai credenti e ai connazionali, non vi è alcuna indicazione di estendere questo principio ad altri criteri. Non dico che sia sbagliato se ci si sente obbligati a farlo; semplicemente, il principio della “prossimità” ci chiama a prestare un'attenzione particolare a chi ci sta vicino, nella fede, nella famiglia, nella nazione, nel contesto che ci circonda.

D: Su questi temi, in che modo le tue opinioni contrastano con la maggior parte delle persone nel tuo paese, o con la maggior parte degli evangelici?

L'opinione pubblica in Italia è polarizzata su questi temi e temo che anche gli evangelici siano spesso influenzati più da pregiudizi politici che da principi biblici. Da un lato la destra politica si schiera dietro la narrazione del "noi contro loro" e promuove una cultura della paura. D'altra parte la sinistra politica è guidata da una visione “secolare-messianica” dello stato che detta come dovremmo vivere nella società. Come evangelici dobbiamo sviluppare una teologia responsabile dell'accoglienza e dell'integrazione in cui le chiese, le agenzie e lo stato svolgono un ruolo in questo compito complesso ma inevitabile, con l'obiettivo di offrire aiuto a chi è nel bisogno e fornire modi per promuovere la cittadinanza collaborativa da parte di coloro che sono accolti. Questo punto di vista non sta nella polarizzazione destra-sinistra.

D: A quali versetti biblici o princìpi scritturali attingi per le tue risposte?

Dio ha creato il mondo mettendo insieme unità e diversità, identità e alterità: invece di rispettare questo ordine, il peccato ha creato l'idolo dell'“uno” e l'idolo dei “molti”. Dovremmo evitare la formazione di "ghetti", cioè comunità isolate e insulari, ed evitare di essere sottomessi all'idolo dell'uniformità, cioè l'assenza di distinzioni. Nella Bibbia ci sono diversi tipi di “stranieri” (es. “gerim” Levitico 19,33-34 e “nokrim/zarim” Esodo 12,43; 23,3-6), a seconda della loro vicinanza al popolo di Dio. Dovremmo trovare il modo di elaborare di conseguenza le nostre relazione con gli “altri”. Infine, è importante abbinare la chiamata alla generosità a ciò che è possibile in circostanze specifiche (2 Corinzi 8-9). È sempre un esercizio di conciliazione tra ruoli sacerdotali (es. prendersi cura delle persone), con compiti profetici (es. promuovere la verità e denunciare il male) e responsabilità regali (es. vivere come persone riconciliate e ordinate). Uno strumento utile è la dichiarazione dell'Alleanza Evangelica Italiana, “Immigrati e confini responsabili” (2008) e il fascicolo “Stranieri con noi”, Studi di teologia – Suppl. N. 7 (2009).