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Che chiesa vogliamo essere (III). Chiesa catalizzatore che condivide e moltiplica le risorse

Le chiese locali, si sa, possono essere, nel migliore dei casi molto attive ed impegnate: piene di impegni da calendarizzare, di attività da promuovere e di persone da curare. Eppure, queste attività possono nascere e morire nel microcontesto locale senza impattare in alcun modo il mondo circostante poiché pensate in termini introspettivi e di cura del proprio orto. Oppure possono essere attività che “consumano” solo, senza generare altre energie.

Non che ogni attività di una chiesa debba necessariamente produrre valore aggiunto immediato, ma esplorando le otto metafore che possono aiutare a far crescere una cultura del discepolato, si capisce che c’è un modo, per le chiese, di pensarsi come agenti moltiplicatori di buone pratiche che generano benefici a lungo termine e in un lungo raggio. Le otto metafore sono torrente, dressée (formata/organizzata), alveare, catalizzatore, vivaio, essenza, pit-stop e radice, presenti sul fascicolo “Discepoli che discepolano”, Studi di teologia, N. 64 (2020), a cui la chiesa Breccia di Roma Prati ha dedicato una serie di predicazioni. 

Le metafore raccolgono in una sola espressione il tratto più significativo di alcune chiese del presente e del passato, nazionali ed internazionali prese ad esempio per una delle loro caratteristiche determinanti. Ad essere descritta come chiesa “catalizzatore” è, ad esempio, la chiesa Redeemer di New York (USA) durante il pastorato di Tim Keller. La chiesa in questione non solo ha radicato la sua opera locale, ma ha attivato una serie di processi che sono serviti da catalizzatore, appunto, per la fondazione, la cura e il beneficio di altre chiese non solo in America, ma in molti Paesi del mondo. La visione ariosa di questa chiesa ha dato vita a una serie di movimenti che hanno prodotto frutto in grande quantità, comunque superiore all’investimento iniziale. 

Vogliamo quindi essere delle chiese catalizzatori, cioè capaci di avere un’influenza positiva nei contesti in cui sono inserite e non solo. Da dove cominciare a pensare ad un discepolato arioso, aperto, generoso e volto all’estensione del regno di Dio in senso ampio?

Il libro degli Atti viene in soccorso a questa domanda. Nello specifico il secondo capitolo. Gesù è da poco asceso al cielo e i suoi seguaci sono relativamente pochi, tanto da poter stare tutti insieme nello stesso luogo perseverando insieme nella preghiera e riorganizzandosi per poter portare avanti la testimonianza. 

A questo punto però arriva un elemento che cambia il corso delle cose e che mette in moto un movimento irreversibile e più grande di quanto poco più di un centinaio di persone avrebbero potuto fare pur al massimo del loro sforzo: i discepoli sono riempiti di Spirto Santo generando una testimonianza potente e trasformante. 

Ovviamente i moti dello Spirito Santo non sono prevedibili, quantificabili, pianificabili, ma una chiesa catalizzatore è sicuramente una chiesa che attraverso la sua vita ordinaria, ordinata, curata e tendente alla maturazione è aperta all’intervento dello Spirito e lo favorisce. L’intervento dello Spirito Santo guida la chiesa all’annuncio della buona notizia del Vangelo, ma lo fa in modo saggio e strategico. 

Lo Spirito Santo mette in moto pratiche di condivisione generosa delle risorse. I credenti della chiesa di Gerusalemme non tengono le cose per sé ma le mettono in comune, in modo che moltiplichino il loro effetto. 

Una chiesa catalizzatore non guarda solo a sé stessa in modo introverso ed egoistico. E’ in “rete”, nella rete evangelica da cui riceve e a cui contribuisce. Il poco seminato produce tanto frutto nel tempo. Essa persevera nell’insegnamento biblico, nella comunione fraterna, nel celebrare gli ordinamenti in modo assiduo e concorde, in modo da alimentare una visione che possa attuare processi che risultano trasformanti a breve e a lungo raggio. 


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