Scuola pubblica e religione. Quale futuro?
Il n. 251 della rivista cattolica di divulgazione teologica Credere Oggi è interamente dedicato alla questione dell’insegnamento della religione (IRC) nella scuola. Tale insegnamento, come si sa, è disciplinato (oltre ad altre fonti normative) dall’Accordo di revisione del Concordato tra Stato e Santa Sede, avvenuto il 18 febbraio 1984, dopo 55 anni dal primo Concordato (1929), anni di storia segnati da enormi sconvolgimenti bellici, economici, sociali e culturali, che hanno trasformato profondamente la fisionomia del nostro Paese e mutato il modo di vivere delle successive generazioni. Oggi, dopo quasi 40 anni dalla prima revisione, si sente la necessità di fare il punto della situazione, a fronte delle trasformazioni e dei nuovi cambiamenti altrettanto profondi avvenuti nel mondo negli ultimi quattro decenni.
Già fin dall’editoriale, che presenta lo “status quaestionis”, si può apprezzare la portata della riflessione coordinata da Flavio Payer (uno dei più autorevoli esperti in merito), mentre dalla lettura degli otto contributi emerge l’approfondimento dei vari temi connessi, conclusi da un’interessante documentazione e da suggerimenti per la lettura.
Al termine di questa rassegna, insieme all’apprezzamento della numerosità e varietà delle opinioni sulla religione scolastica che coprono uno spettro assai largo, da quelle più conservatrici a quelle più progressiste e anche futuriste, non si può evitare anche un certo spaesamento, dovuto ai significati plurimi, ai doppi o tripli registri, alle sfumature contrastanti che assumono i concetti più significativi del discorso: religione, fede, cultura, pluralismo ecc., tanto da rendere difficoltoso rintracciare ciò che rappresenta il comune filo conduttore (come succede nel gioco delle tre carte: ora c’è… ora non c’è), che scorre più in profondità rispetto alle argomentazioni esplicite, ed è la volontà di mantenere in ogni modo e anzi consolidare l’insegnamento scolastico della religione cattolica. Per quanto siano ampie le argomentazioni, infatti, nessuno dei contributi si spinge a mettere in discussione quello che è postulato a priori: in un modo o nell’altro, la religione cattolica deve essere presente nella scuola pubblica.
Una concezione più ampia della libertà religiosa postula al contrario che un vero dialogo plurale si potrà ottenere solo rispettando la specificità di ogni identità personale, culturale, religiosa ecc., dove con “rispetto” si intende confronto paritario in cui nessuno si trovi in una condizione privilegiata rispetto all’altro. Non deve essere imposto nulla, tantomeno la rinuncia alle proprie convinzioni che, anzi, sono fondamentali perché il dialogo sia autentico. Detto questo, è evidente che la posizione degli attori scolastici è fortemente asimmetrica, infatti la persona dell’insegnante (la sua cultura, la sua età e la sua posizione istituzionale) si trova in una posizione di autorità rispetto agli studenti. Un tipo di confronto paritario potrà avvenire laddove il contesto non prevede ruoli sovraordinati o subordinati, come avviene nella vita quotidiana tra cittadini (conferenze pubbliche, convegni, incontri liberi ecc.). La religione cattolica poi gode di una posizione privilegiata nell’ordinamento giuridico italiano e, finché non sarà modificato l’assetto normativo con una legge sulla libertà religiosa, la situazione non potrà essere significativamente modificata.
Ci si può inoltre soffermare su uno dei rapporti più problematici: quello tra fede, religione e cultura, rilevante in rapporto allo statuto disciplinare dell’IRC. “Le religioni interessano la scuola in quanto fatti culturali e momenti significativi della vicenda dei popoli… per la scuola è oggetto di studio ciò che per i credenti è oggetto di fede. Questo suppone la distinzione tra fede e religione, tra l’atto soggettivo del credere e il fatto oggettivo che lo esprime” (p. 105). È proprio questa pre-supposizione a essere posta in dubbio, quasi che il fatto possa darsi a prescindere dal soggetto che lo interpreta. In termini scolastici, è come dire che l’insegnante di IRC si colloca al di sopra, in un luogo neutrale, al di fuori della religione che sta insegnando, e che gli studenti che ascoltano facciano altrettanto… ma dove sta questo luogo? Se la religione in generale è la ricerca di un collegamento con l’Assoluto, anche la cultura che la esprime offrirà una propria versione di tale Assoluto. La cultura, anzi, le culture non si danno a prescindere da una visione del mondo che le collega a degli assoluti, a certe convinzioni indisponibili che rispondono alle domande di fondo: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo… cos’è il mondo, la vita, il bene, il male, il giusto e lo sbagliato, idee poste a fondamento di ogni narrazione culturale e che si professano come vere.
L’impossibilità di insegnare la religione cattolica in modo non confessionale è più o meno apertamente ammessa anche dagli stessi Autori. Se dunque questa è la situazione, come si può pensare che la scuola statale abbia competenza di insegnare la religione cattolica, se non per una storia di compromesso tra le istituzioni di due stati sovrani, quello italiano e quello vaticano? E ancora, quale competenza può vantare l’insegnante di IRC di insegnare le altre religioni, sia in forma di “storia” sia in forma di “dialogo interreligioso”, senza sminuire e vanificare la portata e il senso delle differenze identitarie, visto che non può prescindere dal proprio punto di vista?
Inoltre, proprio l’Italia con tutta la sua cultura è il Paese che meglio incarna ed esprime la religiosità cattolica romana nella sua storia, letteratura, arte, tradizioni, nel modo di vivere, tanto che quasi nessuno che sia nato e cresciuto in Italia può affermare di non essere (stato) cattolico. Ci si può dunque chiedere legittimamente che bisogno c’è di insegnare ancora religione cattolica nella scuola. Lo si faccia, se proprio si vuole, ma nella famiglia e nella parrocchia, luoghi deputati a questo. Tra l’altro, tutta questa enfasi sull’insegnamento religioso nella scuola non va a indebolire e inficiare il ruolo delle altre istituzioni, prima di tutto della famiglia? Se la famiglia e la chiesa non sono in grado di svolgere questo ruolo, non deve e non potrà essere la scuola a supplire al compito.
La tendenza a delegare alla scuola una varietà di compiti che non le spettano deriva da una concezione squilibrata per cui le méte della scuola sarebbero “studio del patrimonio culturale dei popoli, confronto con i problemi fondamentali della vita, coltivazione di una mentalità critica… impegnata a trasmettere i valori che risultano largamente condivisi e che come tali fanno da garanzia al perpetuarsi della nostra civiltà” (p. 107), concetti che, se presi sul serio, sono quantomeno irrealistici per la scuola d’infanzia, primaria e secondaria! È una concezione che presuppone una classe docente superdotata con una conoscenza enciclopedica da trasmettere agli studenti, dai quali poi ci si attende un compito salvifico della civiltà. Molto più modestamente, la scuola statale potrebbe offrire a tutti i suoi utenti gli strumenti culturali per orientarsi nella complessità del mondo e trovare il proprio posto nella società.
L’orizzonte che fa da sfondo all’universo linguistico in cui si collocano tutti i contributi è quello del “pluralismo”. È bene chiarire però che questo termine non va inteso sua accezione ‘debole’ ovvero di pluralità di prospettive legittimamente coesistenti nella società civile, bensì come principio ermeneutico nella lettura della realtà: “… il pluralismo culturale e religioso chiede di essere interpretato non solo come un fatto, ma anche come un principio” (p. 87). Il passaggio dalla descrizione alla prescrizione è sottile e quasi impercettibile, ma è proprio quello che orienta tutto l’impianto argomentativo, pur se non è facile da giustificare teoricamente. Tra i fattori che hanno contribuito al suo imporsi, è significativo quello pragmatico: se si vuole che la religiosità sopravviva, bisogna rinunciare a ogni pretesa veritativa e adeguarsi alle esigenze della postmodernità.
Una valutazione di questa vera e propria ideologia, a cui sembra che tutti debbano rendere omaggio, afferma che “Il pluralismo appare inaccettabile sul piano epistemologico, errato su quello teologico e ingannevole su quello pratico… Perché ci possa essere una vera alternativa, è necessario tornare alla Bibbia… Al di fuori della dottrina biblica della Trinità, in cui l’uno e il molteplice sono ugualmente ed assolutamente fondamentali, ogni altro pensiero finisce per essere dialettico…”[1].
Delle criticità dell’ideologia pluralista, quella più attinente al tema dell’IRC è la sua impraticabilità. Essa infatti “non può mantenere ciò che promette. Essa deve accogliere tutti salvo coloro che rifiutano il pluralismo. Il rifiuto del dogma che sembra inizialmente contraddistinguere il pluralismo dovrà essere messo da parte quando s’incontra chi ha l’audacia d’essere dogmatico”[2]. Come farà allora la religione scolastica pluralista ad accogliere studenti portatori di una solida identità religiosa, ancorata a convinzioni assolute (pur senza volerle imporre ad altri) e non disposti a metterle da parte?
Infine, allargando la valutazione dai singoli contributi esaminati all’approccio complessivo per una soluzione dei problemi emergenti, si potrebbe obiettare sulla correttezza della diagnosi e sull’efficacia della cura proposta. I problemi che preoccupano i promotori dell’IRC e che trapelano qua e là tra le righe si riferiscono all’aumento della conflittualità, in tutte le forme in cui si manifesta comprese quelle violente, anche all’interno delle aule scolastiche. L’insistenza sul dialogo e sulla fratellanza universali ha come scopo quello di arginare e possibilmente comporre conflitti sempre più difficili da gestire nella scuola. La “malattia” è individuata nei rapporti interpersonali tra le persone, le religioni, le culture. È uno sguardo appiattito sulla realtà umana, considerata sì deviata ma pur sempre portatrice di una divinità immanente che deve potersi manifestare.
La cura proposta è l’applicazione scolastica della ricetta lanciata dal Movimento Ecumenico, che si può considerare lo sbocco religioso del pluralismo e che culmina nelle due encicliche Fratelli Tutti e Laudato si’, in cui Francesco vuole perorare la causa della fraternità universale e dell’amicizia sociale, basandosi sul principio che siamo tutti fratelli in quanto figli dello stesso Dio. Tuttavia, “Quando parla di Dio ne parla in termini tanto generici e generali da poter andare bene alla religione musulmana, induista, ecc. e anche massonica… Avendo tolto la “pietra d’inciampo” di Gesù Cristo, tutti possono rivolgersi ad una non meglio precisata Divinità per sentirsi “fratelli”: fratelli in una Divinità ad immagine e somiglianza dell’umanità, non fratelli e sorelle sulla base dell’opera di Gesù Cristo morto e risorto per i peccatori”[3].
La prospettiva cattolica non è convincente in quanto non serve né la causa di Dio né quella dell'umanità. Il male in tutte le sue manifestazioni, come conseguenza del peccato, fa parte di un male sistemico la cui cura non è dentro di noi o in mezzo a noi, nemmeno se ci uniamo tutti insieme (come secondo la concezione ecumenica). La fede cristiana, anche nella sua veste culturale, non potrà mai essere ridotta fino ad adeguarsi al Pantheon del pluralismo religioso scolastico. La scuola statale, in particolare nei suoi gradi inferiore e superiore, dovrebbe porsi con uguale rispetto e cautela nei confronti prima di tutto delle persone e delle famiglie rappresentate, in quanto portatrici di una specifica e diversa coscienza identitaria. In secondo luogo, dovrebbe fare un passo indietro, lasciando che altre istituzioni meglio titolate ed equipaggiate svolgano il compito dell’istruzione religiosa.
[1] “Pluralismo”, Dizionario di teologia evangelica, a cura di P. Bolognesi, L. De Chirico, A. Ferrari, Marchirolo (VA), EUN 2007.
[2] Idem.
[3] “Fratelli tutti. Il prezzo altissimo dell’universalismo cattolico”, Loci Communes (9/10/2020).