Consacrare e sacrificare. Nella vita c’è sempre di mezzo il sacro

 
 

Coscienti o meno, siamo sempre lì a trattare col “sacro”. Anche nella nostra cultura secolarizzata e apparentemente priva di trascendenza e di riferimenti soprannaturali, giriamo sempre intorno a quello che Rudolph Otto chiamò il “fascinoso e tremendo” (Il sacro, 1917). Certo, le modalità d’ingaggio cambiano in modo vistoso, ma la vita umana è “religiosa” per definizione e costituzione, cioè legata ad un assoluto, anche senza affiliazioni a istituzioni religiose o dedicazione a pratiche religiose tradizionali. Per quanto indipendente e autonoma la vita delle persone voglia pensarsi, essa non può fuoriuscire dalla sfera della religione.

Sino a ieri era abbastanza facile osservare le forme della religiosità: si trattava di prendere nota delle festività dedicate alla religione, dei riti collettivi, delle abitudini quotidiane che puntellavano la vita, del linguaggio usato che evocava il divino in ogni circostanza. Oggi queste pratiche, benché ancora sedimentate sotto la scorza superficiale della fluidità contemporanea, appaiono più diradate, più discontinue, coperte da una coltre di disincanto.  

Eppure, anche nella nostra età post-qualcosa, c’è un modo in cui vedere sempre la religiosità all’opera. Basta pensare a due parole che contengono il sacro e che riassumono la nostra vita: consacrare e sacrificare. In entrambe c’è il sacro. 

Cosa vogliamo consacrare: valorizzare, considerare importante, elevare a qualcosa di imprescindibile, ecc., indica la nostra priorità, il nostro assoluto, la nostra divinità (idolo). D’altra parte, cosa vogliamo sacrificare: eliminare, togliere, farne a meno, ecc. indica cosa siamo pronti a perdere per negoziare con l’assoluto e pacificarci con esso. 

Scegliere cosa elevare e cosa eliminare: questo è il senso religioso del consacrare e del sacrificare. Anche se non si tratta più apparentemente di religione con nomi di dèi o di pratiche devozionali, cosa eleviamo ad assoluto riflette la nostra religione. E’ la carriera? E’ l’amore? E’ la nostra immagine social? Sono i soldi? E’ una combinazione di questi? Qualsiasi cosa sia, ciò a cui ci consacriamo e che consacriamo come la cosa importante è il nostro “sacro”, la nostra religione. 

Per contro, quello che siamo pronti a sacrificare dice cosa possiamo e vogliamo dismettere per vivere la nostra religione. Sacrifichiamo le relazioni? La famiglia? Gli impegni duraturi? Qualsiasi cosa sia, ciò che sacrifichiamo dice cosa per noi è ingombrante nella nostra religiosità e di cui siamo pronti a disfarci pur di continuare in essa.

Questo vale per la religione personale, ma anche per la religione secolare di intere società. Ad esempio, per consacrare la libertà sessuale dei singoli, sacrifichiamo la vita di milioni di feti abortiti o lo sfruttamento sessuale di schiavi. Per consacrare il profitto inarrestabile o stili di vita dispendiosi, sacrifichiamo la distribuzione equa delle risorse e lo sfruttamento del creato che risultano in sperequazioni di sistema. Per consacrare il privilegio di pochi, sacrifichiamo la precarietà di molti. E così via. E’ sempre un gioco di consacrazione di qualcosa e di sacrificio di altre cose. Così funziona la vita.

Si pensi alle distorsioni della religione nelle sue forme storiche assolutizzate: ad esempio, il cattolicesimo romano di Pio IX. Per consacrare la rivendicazione di autorità divina, è stata sacrificata la vita delle minoranze. Per consacrare la centralità del clero, è stata sacrificata la soggettività dei laici. Per consacrare le rivendicazioni del magistero, è stata sacrificata la libertà di accesso alla Sacra Scrittura. Si pensi al cattolicesimo contemporaneo di Francesco. Per consacrare la fraternità universale, viene sacrificata la fedeltà al magistero richiesta in passato. Per consacrare l’ecumenicamente corretto che vuole che siamo tutti sorelle e fratelli, viene sacrificata la comprensione della chiesa d Roma di essere l’unica e vera chiesa. 

In quanto intrinsecamente religiosa, la vita umana richiede consacrazione e sacrificio, continuamente. Se sbaglia a consacrare e sacrificare, produce un assetto idolatrico che alla fine strozza la vita e produce desolazione. Solo la buona notizia di Gesù Cristo libera dall’idolatria e riorienta la vita grazie al sacrificio perfetto di Gesù Cristo, grazie al quale la vita intera può e deve essere consacrata alla gloria di Dio soltanto.